12/11/13

Quando un paziente muore.

Attesa all'ingresso di un Pronto Soccorso.
Un giorno qualunque di un mese qualunque, in un ospedale non qualunque, perché è quello dove faccio tirocinio io.

Ho finito di seguire le lezioni. Saluto un po' di colleghi studenti: ciao ciao, ci vediamo domani, abbracci e baci, e vado in reparto.

Apro l'armadietto, e con una mossa stile cavaliere oscuro mi infilo il camice che avevo lasciato appeso con tanto di fonendoscopio, saturimetro e tesserino ancora in tasca. Richiudo l'armadietto, in un attimo faccio le scale ed entro in pronto soccorso.

E subito dietro la porta, trovo che stanno rianimando un paziente.

«Dai il cambio al collega» mi fanno prima di immediatamente di subito, che io manco ho ancora capito cosa stanno facendo. «Sbrigati!»

E io non so nemmeno che accidenti è successo: 3 minuti prima stavo a lezione a scrivere "sono a lezione" su Facebook, e 3 minuti dopo sto lì a comprimere il torace di uno mentre guardo l'elettrocardiogramma sul monitor è penso: dai - cazzo - riparti. Dai - riparti - cazzo.

Non me lo ricordo di preciso, ma potrebbe essere che a un certo punto l'anestesista abbia chiesto "un'altra fiala di adrenalina".

Qualcuno passa il farmaco, qualcun altro lo manda in vena. E io sto lì che comprimo mentre un altro dà l'ossigeno e intorno c'è il casino totale in parte direttamente legato alla rianimazione in corso, e in parte il casino fisiologico del pronto soccorso che va avanti per i cavoli suoi.

Comprimo e mando giù il torace sentendo le costole che scricchiolano sotto le mani. Il camice mi mette caldo, sono rosso in faccia e già comincio a sudare. Guardo il volto del paziente e lui, in compenso, è blu.

«Aspetta».

L'anestesista mi ferma per controllare i parametri vitali. Fissiamo tutti il monitor, e la linea che scorre è una tavola piatta senza manco l'accenno dell'ombra di un'onda che fosse una: il cuore è fermo.

Riparto con le compressioni. Si fanno altri farmaci, altri controlli. Ma più passa il tempo, e più quello che sarà l'esito finale inizia a farsi evidente.

Qualcuno dà il cambio a me, e io passo alle vie aeree. Spingo la maschera dell'ossigeno sopra la bocca del paziente, mentre qualcosa di viscido mi inzacchera i guanti. Sto tutto storto tra la barella, il monitor e la parete. Iperestendere è difficile e mi fa male la mano. Il mio ritmo, adesso, è: dai - ventila - cazzo. Dai - cazzo - ventila.

E poi, a un certo punto, quello che oramai ci aspettavamo tutti già da un po':

«Basta così» dice l'anestesista. «Interrompiamo».

A questo punto, se fossimo in un medical drama, getterei per terra i guanti. Poi butterei all'aria la prima cosa che mi capita a tiro, come l'ecografo o l'armadietto dei medicinali, e me ne andrei sbattendo la porta a fare il muso incazzato in giro per i corridoi e a insultare gli specializzandi mentre tutte le donne che passano si innamorano di me.

La verità è che - in un pronto soccorso vero - quando muore qualcuno c'è chi deve avvisare i parenti, e quella davvero è la cosa più penosa. Poi c'è chi si occupa della salma. C'è chi deve scrivere la cartella sul perché e percome e tutto quel che è successo, e c'è chi ha altri pazienti gravi da seguire e - semplicemente - va ad occuparsi di loro come se vedere qualcuno che ti muore sotto le mani non fosse che la banale routine di un qualsiasi altro banale mestiere.

Per quanto riguarda me, quando muore un paziente ci resto dal male al malissimo, a seconda di quanto era più o meno anziano e a quanto stava più o meno male già da prima. La prima volta che ho visto morire uno dell'età mia, ho passato la notte in bianco a ripensarci sopra. Poi, piano piano, la cosa è un po' migliorata e adesso certe cose le ammortizzo un po' meglio.

Alle volte poi finisci il turno lasciando qualcuno che avevi conosciuto, e che magari non pareva nemmeno poi così messo male. Poi al turno dopo ritorni, e ti dicono che è morto. Che non ce l'ha fatta. E lì, insomma, anche quella è una bella mazzata: hai fatto tanto lavoro e ti pareva di aver risolto chissà che cosa, ma poi niente. Sei stato assolutamente inutile.

Anche la stessa rianimazione cardiopolmonare - una situazione ancora di reversibilità, e che avviene prima che ci si debba arrendere all'irreparabile - è la cosa che mi sta davvero più immensamente e intensamente sul cazzo di un lavoro che - altrimenti - mi piace così tanto che starei lì tutto il giorno, e che quando finisce il turno quasi non me ne voglio andare.

Che poi... lavoro? Io sono solo uno studente, e il giorno che potrei cercare di ambire ad essere pagato mi diranno che il ministero ha tagliato i fondi e mi cacceranno. Però se capita che c'è il turno tipo la domenica, io già dal venerdì prima non sto più nella pelle e non vedo l'ora che arrivi il momento.

Sono una specie di medical addicted. Un secchione del reparto. Uno di quei dottori che li vedi che a 50-60 anni stanno sempre in giro per l'ospedale a fare non si sa bene cosa, e che magari fuori da lì stanno pure giù di morale perché non hanno altri interessi e non sanno come passare la giornata.

Però, di questo lavoro, la parte che più affascina un po' tutti nell'immaginario collettivo creato da telefilm, cinema o racconti drammatici di tragedie vissute, a me fa andare di traverso un po' tutto quanto il resto. Datemi un infartone, uno che si è spatasciato con la moto, un'embolia polmonare, e io: aaaah l'infartone, la moto rotta, l'embolia polmonare da usarci l'ecografo!

Però il bls, il massaggio cardiaco, quello che va in coma e viene intubato, l'arresto cardiocircolatorio, il paziente critico che più critico non si può... no. Quelli proprio me li eviterei volentieri, e ve lo dico con tutta la tranquillità e la schiettezza di questo mondo.

E mi spiace per i miei amici anestesisti, che a occuparsi di certi pazienti ci dedicano la vita e che anche loro - ovviamente - non ameranno certe situazioni tanto quanto non le amo io. O per chi mi consiglia sempre "prova a entrare a rianimazione se ti piace il pronto soccorso". Ma io lo so che è importante e che non si può prescindere dall'occuparsi di queste cose, tanto che già da studente ho fatto i corsi, ho tutti i certificati e so un pochettino dove mettere le mani... però se capita da fare un massaggio cardiaco, spero sempre che capiti nel turno quando non ci sono io.

Ma vediamo il lato positivo della questione: non mi piace che i miei pazienti muoiano. E in una percentuale significativa dei casi non piace nemmeno a loro per cui - tutto sommato - è un buon punto a favore almeno per quanto riguarda la relazione medico/paziente.

«Dottore, io vengo da lei ma preferirei non morire» direbbero loro.

«A dire il vero, se lei morisse mi darebbe assai noia» risponderei io.

E insomma: a conti fatti, andremmo d'accordo.

Simone

13 commenti:

Veronica ha detto...

Già non volere la morte del paziente è un buon inizio...guarda la questione dal punto di vista opposto, da medico avrai più possibilità di salvarla una vita, sia in senso pratico ma anche sapendo indirizzarlo dallo specialista adeguato, in alcuni casi anche il tempismo fa la differenza.

ThereseM ha detto...

Vorrei imparare il prima possibile a capire quale sia il modo migliore per me per affrontare la cosa... un buon inizio e parlarne, o sentirne parlare...

Ciao Simone!

Simone ha detto...

Veronica: ovviamente quella era un po' una battuta: tutti i dottori vogliono - credo - il meglio per i loro pazienti. Pensare che tra tante situazioni negative puoi riuscire ad aiutare almeno qualcuno credo sia un ottimo sistema per affrontare la cosa e farsi coraggio, grazie della riflessione.

Therese: penso che parlarne sia già importante. Ammetto che non è stato semplicissimo scrivere questo post, e un po' spero mi/ci aiuterà a riflettere.

Simone

Anonimo ha detto...

Il fatto di tornare a casa e lasciarmi alle spalle quell'emotività legata alle relazioni umane con i pazienti, grazie a Dio, mi è sempre appartenuta. E di pazienti in condizioni spiacevoli, purtroppo, ce ne son sempre parecchi in una medicina...
Il fatto è che al mondo siamo tutti diversi (per fortuna) e ognuno reagisce diversamente a certe cose. Il fatto di avere una specie di campana di vetro mi ha sempre aiutato ed è una cosa che in un certo modo bisogna imparare a fare per non soffrire troppo nelle professioni sanitarie. E' un sistema di difesa non indifferente che ti protegge nelle situazioni peggiori.
Condivido pienamente, comunque, la tua forte passione e l'entusiasmo per il lavoro. Nonostante ci siano le "giornate no", anche per me andare in ospedale è sempre qualcosa di bellissimo e mi ritengo fortunato ad aver trovato una professione che valorizzi così tanto ogni singola giornata! Imparare, guadagnare, aiutare, conoscere... Tutto in poche ore, ogni giorno...
Nicolò

Simone ha detto...

Io no, io sono molto emotivo e tante cose le accusò e ogni nuova procedura e passo aggiuntivo mi costa fatica finché poi non ci faccio l'abitudine e diventa routine. La passione per questo tipo di lavoro invece mi pare che sia la stessa.

Anonimo ha detto...

Anche io sono molto emotivo per quanto riguarda le procedure. Imparare le basi è stato un lavoro che mi è costato tantissimo sudore e molta sofferenza, ma la passione era talmente tanta che ero più che determinato a superare tutti i miei limiti, un tempo insormontabili... Per ciò che riguarda i rapporti umani il discorso è diverso perché curarli mi viene naturale, così come proteggermi dal punto di vista emotivo-relazionale. Purtroppo la morte è una brutta bestia con cui dobbiamo convivere nella nostra realtà. C'è di positivo che ci son tanti modi di morire (alcuni non dico "piacevoli"... Almeno sereni). E mai dimenticarsi che lavorare con gli ammalati può significare anche salvare vite, curare, aiutare, sostenere e guarire, tutte esperienze che donano infinita soddisfazione, che ci devono spingere a ricordare quanto sia bello il nostro mondo!
Nicolò

chesognichefai ha detto...

A proposito di "io verrei da lei ma preferirei non morire", mio nonno ha sempre detto che i dottori bisognerebbe pagarli finche' si sta bene, ed essere gratis da malati. Suona un po' piu' rude, ma la filosofia ci assomiglia :-)

Simone ha detto...

Niccolò: credo anche io che tante cose si "superino" con la passione!

Che sogni: si ma da sano dal dottore non ci va nessuno... anche se il trend in effetti è convincere i sani a farsi visitare il più spesso possibile :)

Simone

Anonimo ha detto...

Bè ma è una specie di spunto per la sanità pubblica, e lui lo dice riferito al suo medico di base!
Che sogni

Valerio ha detto...

Una volta ho letto che nella tradizione cinese è (o più probabilmente:"era") così: il medico viene pagato finché si è sani, se ci si ammala lui deve rimediare al non aver saputo prevenire e non deve chiedere nulla.

Simone ha detto...

Ma alla fine insomma sempre colpa del dottore è?! :) direi però che visto che ci sono più sani che malati per certi versi tutto sommato potrebbe essere un vantaggio farsi pagare da chi NON ha bisogno di cure :)

Simone

Dama Arwen ha detto...

Ecco io ho paura di dirti cosa penso… mi sa che ti scrivo in privato… forse la tua opinione di (quasi) medico mi illuminerà…

Simone ha detto...

Dama: quando vuoi, ma non prometto nulla! :)

Simone