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25/06/14

Da ingegnere a medico.

Strumento magico costruito da ingegneri NON civili.
Nel 2007, come ingegnere, mi occupavo di prevenzione incendi e di pratiche relative all'isolamento termico di appartamenti e villini.

Detto in soldoni prendevo delle fotocopie, compilavo tabulati standard al PC, realizzavo disegni così come da normativa, firmavo moduli prestampati e rilasciavo "documentazioni richieste" all'ufficio competente del caso.

Come ingegnere avevo provato un paio di volte il concorso per i Vigili del Fuoco, non riuscendo però a entrare.

Una delle prove classiche del concorso prevedeva il progetto di un edificio in cemento armato, e ricordo benissimo un momento particolare mentre scartabellavo come un forsennato sul prontuario dell'ingegnere in cerca del giusto quantitativo di ferri da inserire in una trave:

La scena che si allarga, centinaia di candidati tra fogli, libri, calcolatrici e documenti. Io che sono 8 ore che faccio calcoli astratti per il progetto irreale di una struttura inesistente e che d'improvviso, mi chiedo: ma che cazzo ci faccio, qui?!

Il colpo finale l'ho avuto dopo aver preso la qualifica di tecnico antincendi: 5 anni di università, 2 anni di iscrizione all'albo, 120 ore di corso post laurea con tanto di esame dato due volte perché mi avevano pure segato visto che - diciamo la verità - non avevo studiato un accidenti.

Convintissimo che il mio percorso di studi mi avesse dato accesso a chissà quali elitarie vette professionali, vado al mio primo convegno e mi ritrovo circondato da scolaresche degli istituti tecnici - presto abilitati a svolgere il mio stesso e identico lavoro di scartabellatore di pratiche - e giusto qualche collega anziano che si litigava con i ragazzini i gadget che regalavano agli stand.

Fare l'ingegnere civile, nel 2007, per me era semplicemente questo: tanta frustrazione, e la sensazione che quello non fosse il mio posto.

Nel 2007 facevo anche il volontario della Croce Rossa. Andavo un po' con il 118, ero istruttore di rianimazione cardiopolmonare, ho tenuto qualche lezione di primo soccorso e insegnavo - nei limiti delle mie capacità - agli altri volontari come si va in ambulanza.

Che poi non voglio passare per quello con chissà quale spirito altruista, e non è neppure che avessi tutta questa passione per il mondo della sanità e del soccorso: quando sono entrato in Croce Rossa, l'ho fatto solo perché avevo un sacco di tempo libero. Perché cercavo qualcosa che mi gratificasse più del mio normale lavoro, e anche perché non ero entrato nei pompieri, ma mi piaceva troppo quella sensazione di quando succede qualche casino, ti chiamano, e tu arrivi di corsa a sirene spiegate e pregando che non sia proprio quella la volta buona che ti fai male.

Per cui, insomma, potremmo suddividere il mio percorso pseudopatologico in una serie di tappe fondamentali:

1) Laurea in ingegneria con relative esperienze professionali generalmente deludenti.

2) Servizio militare nei vigili del fuoco, dove scopro che un lavoro un pochettino più movimentato dell'ingegnere seduto davanti al PC - tutto sommato - mi piace.

3) Ingresso in Croce Rossa dopo la fine del militare.

E fin qua, e in tutto questo, sottolineerei come non fossi contento per niente. Non stavo bene, non ero sereno, stavo sempre incazzato, ero scontroso e - diciamolo - con quel caratteraccio, iniziavo pure a stare sui coglioni un po' a tutti.

A 27 anni non avevo fatto altro che farmi un mazzo così appresso a cose che non mi avevano realizzato minimamente per niente, e stavo - lentamente - iniziando a capire che avevo assolutamente toppato tutto e su tutta la linea.

A parte, dicevamo, la Croce Rossa.

Entrato - credo - nel 2003, tanto per e tanto per fare qualcosa, alla fine ho iniziato a ri-trovarmi. Facevo un turno in ambulanza, e tornavo a casa contento. Tenevo una lezione a un corso, e mi piaceva. Seguivo un aggiornamento e - per quanto stancante - mi trovavo interessato. Per la prima volta nella mia vita, scoprivo di avere un impegno che arrivavo addirittura a trovare divertente.

E così ho iniziato a trovarmi a contatto con i dottori. Vedevo quello che facevano, e tutto quel mondo fatto di scienza/non scienza, matematica senza numeri, fiale, alambicchi, tubi, marchingegni elettrici e strumenti pseudo-magici mi affascinava.

Mi affascinava, e col tempo ho iniziato a pensare che mi sarebbe piaciuto avere il loro stesso ruolo, trovarmi al loro posto. In fin dei conti, avrei potuto studiare anche io per fare le loro stesse cose: perché non lo avevo fatto? Ero un ingegnere che si ritrovava ad appassionarsi per la medicina, ma che non aveva le qualifiche e le conoscenze e i titoli per andare oltre il proprio ruolo.

Ma adesso spezziamo una lancia a nostro favore: gli ingegneri, una cosa - almeno una - la sanno fare meglio di tutti. Perché l'idea dell'ingegnere, tutto sommato, è solo quello: trovare delle soluzioni.

Volevo più qualifiche di tipo sanitario, e la soluzione - ai miei occhi - era la più semplice del mondo: acquisire altre qualifiche di tipo sanitario. Che pare una stronzata, ma prima di realizzare che l'unica soluzione era rimettersi a studiare, mi ci sono voluti degli anni.

È iniziato così un percorso in cui cercavo ovunque idee per master, corsi, certificazioni, abilitazioni e chi più ne ha più ne metta. L'idea era di imparare a fare qualcosa da applicare in campo sanitario, e allora c'era il master in Ingegneria Clinica di qui, la scuola di Ingegneria Biomedica dall'altra parte, l'idea di studiare elettronica da solo... insomma, un po' di tutto. Dubbi, incertezze, perplessità, intanto che il tempo passava.

C'è voluto l'unico parente medico della famiglia per puntualizzare e chiarire - finalmente - la questione: io ero andato lì a mostrargli i volantini di non so che corso noioso e inutile sulla gestione dei macchinari ospedalieri. E lui: "se vuoi fare il dottore", mi ha detto, "l'unico sistema al mondo, è quello di laurearti in medicina".

Né più, né meno. Dal problema, alla soluzione. Da una vita da persona disillusa, scontenta e sconfitta, al sogno - perché un sogno era, visto il terrore che avevo di fare questa scelta - al sogno dicevo di un nuovo percorso, gratificante e pieno di soddisfazioni.

Sono andato a parlare con un primario dell'università, e lui mi ha detto: "se lo vuoi fare, fallo. Ma pensa che i 6 anni saranno 6 anni completi, perché con la laurea in ingegneria non ti riconoscerano praticamente nulla".

Sono andato a parlare con un professore di Ingegneria Biomedica, e lui mi ha detto: "sei già ingegnere: ti iscrivi alla specialistica, per i crediti che ti mancano vieni da me e ti dico cosa studiare. Ci metterai un 3 anni in totale, ma scoprirari che ingegneria - adesso - è più facile di quando l'hai fatta tu".

Dopo tutti questi incontri e queste discussioni, ho passato intere nottate insonni a pensare a 6 anni di studio completamente da zero, contro solo 3. Un'intera - interminabile - laurea da medico, oppure solo mezza laurea da ingegnere, con tanto di professori/colleghi dalla mia parte.

Notti insonni al termine delle quali - grazie a Dio - ho realizzato quale immensa stronzata stavo facendo soltanto a voler pensare di potermi iscrivere a ingegneria di nuovo... e alla fine, insomma, ho deciso: avrei provato a diventare un dottore.

In questo presupposto, ero a dir poco oberato da una quantità incalcolabile di paure, dubbi, incertezze. C'erano 10000 incognite da affrontare, a partire dal riuscire in qualche modo a dirlo ai miei senza fargli venire un infarto, dal riuscire a entrare e dal trovare la forza di rimettersi sui libri.

E a quel punto ho affrontato la cosa - di nuovo - con un approccio ingegneristico, scindendo il problema in tanti piccoli sotto-problemi più semplici: prima di tutto avrei provato il test di ammissione. Poi avrei provato a seguire i primi corsi. Poi avrei tentato o primi esami. Poi avrei cercato di prendere in mano un ago senza svenire... e così via, un pezzo alla volta, per 6 anni, e possibilmente fino alla fine.

Di quei giorni, ricordo quel senso di anticipazione. Quel "chissà come andranno le cose". Quel brividino sopra lo stomaco e dietro la schiena che ti ricorda che domani non sai bene cosa ti aspetta, ma che sei comunque curioso e con la testa piena di possibilità, e non vedi l'ora che quel domani - finalmente - arrivi.

C'era tanta incertezza, quando sono andato sul sito dell'università a iscrivermi al test. Ma in quella incertezza ero già più sereno, e nel dubbio più tranquillo. E da quel punto in poi - piano piano e senza quasi rendermene conto conto - ho rimesso in moto la mia vita. E dopo di quello, è stato tutto già un po' in discesa.

Simone

23/04/13

Il tirocinio in oculistica. O anche: la prima volta che mi hanno arrestato.

Strumento usato per vedere l'occhio, e poi dirsi... bo'?!
Credo che oculisti e oftalmologi siano in realtà la stessa persona, ma dato il livello di settorializzazione della medicina potrebbe uscire fuori che uno opera l'occhio destro e l'altro mette le lenti all'occhio sinistro, per cui intanto vi dico che il tirocinio l'ho fatto con entrambi.

Di maxillo-facciale (il chirurgo del cranio, tanto per capirsi) so invece che anche se sto in un settore che dovrebbe essere molto attinente è in realtà una delle materie che mi interessano meno in assoluto: la frattura di tipo X si opera mettendo 3 viti sopra e due sotto. Per la frattura di tipo Z, invece, va bene anche solo un po' di Vinavil.

Il fatto è che io le viti in testa non le voglio mettere davvero a nessuno, per cui - lo ammetto - non sarà mai tra le mie competenze migliori.

Il tirocinio però ce lo fanno tutti insieme, e andiamo al piano di testa e occhi (non si chiama proprio così, ma quasi) dove ci stanno i diversi reparti e un po' di pazienti che hanno in comune.

Insomma stiamo lì in 10 persone col camice dentro una stanza da visita, attorno a una povera signora anziana in vestaglia che si è prestata alla cosa e che hanno portato lì, dicendo: fate voi, visitatela.

Terrore e gelo totale o semplice "c'ho sonno fate voi" di buona parte dei colleghi studenti. Questa cosa del non volersi esporre durante i tirocini era così già dal terzo anno, ed evidentemente non è che sia molto migliorata.

Io però, che mi sto abituando a maneggiare schifezze e toccare pazienti moribondi, della vecchina non mi intimorisco più di tanto. Certo, non ho la minima idea di cosa fare e dire e al 99 virgola 99 per cento farò una figura del cavolo davanti a tutti... ma comunque, chissene frega, vado.

«Che cosa è successo, signora?» domando, facendomi avanti.

Anche se si vedeva subito, non ve l'ho ancora detto ma lei poverina ha tutto un livido tipo enorme sulla faccia e attorno all'occhio destro. Essendo ricoverata in ospedale, che sotto all'occhio nero possa esserci qualcosa di un po' più sostanzioso uno potrebbe pure arrivarci da solo... ma in realtà con tutta la mia svegliezza post quasi doppia laurea ho realizzato la cosa solo ora che scrivo queste righe.

«Sono caduta dalle scale» sorride lei, gentilissima. Vi confesso che ha troppa più pazienza di quanta non ne avrei io, in una situazione analoga. «Mi si è impigliato un tacco nel pavimento, sono inciampata e ho sbattuto la faccia».

Pregno di nozioni di pronto soccorso di base acquisite nel volontariato (che, diciamolo, da dottore al momento non ho imparato quasi una mazza) inizio con una serie di interrogatorio post trauma:

«È caduta perché ha perso i sensi?»

«No».

«Ha sbattuto la testa ed è svenuta dopo?».

«No».

«Ha preso farmaci di qualche tipo?»

«No».

«Ha patologie importanti?»

«No»

«Diabete, ipertensione, cardiopatie?»

«No, no, no».

«Dall'occhio che ha sbattuto, ci vede bene?»

«Ci vedo male. Ma è tale e quale a come ci vedevo anche prima».

Ok. Almeno una delle risposte non è stata un "no", ma una frase tutto sommato piuttosto ben articolata. Ma insomma - mi domando - ora che a domande non ho raggiunto un cavolo di niente, che cosa mi invento? Nel mio reparto, arrivati a questo punto, arriva il professore e risolve tutto lui, mentre qui va a finire che le mie pressoché nulle conoscenze di oftalmologia d'urgenza saranno presto la mia tomba.

In tutto questo i miei colleghi studenti non dicono una parola che sia una per darmi una qualsiasi specie di input su come andare avanti. Forse perché sono sempre atterriti dalla vecchina, o forse più probabilmente - e più consolatoriamente aggiungerei - perché non sanno che fare tanto quanto me.

In compenso ci pensa il professore a farmi capire che è un po' presto per andare in sala operatoria, e che c'è prima qualcos'altro da fare.

«Allora tutto qui?» dice. «Non guardi il paziente, non lo visiti, non fai nulla?»

E come no? La visita maxxillologica (?) è il mio pane quotidiano!

«Guardi verso di me».

Così dicendo mi metto di fronte alla paziente, e con tutta la faccia da culo che solo 10 anni da ingegnere possono insegnarti simulo la più verosimile visita neurologica che possiate immaginare.

Sfiorando con le mani la fronte e gli zigomi, vado tipo a valutare la sensibilità facciale. Credo. Che loro in reparto lo fanno sempre, anche se alla fine non penso di aver realizzato una beata minchia.

«Sente che la sto toccando?»

«Un po' meno dalla parte dell'occhio nero» dice la vecchina.

Intorno a me tutti quanti, studenti tirocinanti professori e specializzandi compresi, mi osservano in silenzio. Non so se mi daranno la laurea, ma almeno un oscar penso di meritarmelo. Ma adesso - mi chiedo - che faccio?!

E d'improvviso un fulmine a ciel sereno mi accende la mente: siamo a oculistica. La signora ha un trauma oculare. Potrei, addirittura, guardare... gli occhi!

Con due dita apro un pochino le palpebre della paziente, e guardo le pupille usando la luce del cellulare. Che lì accanto ci sta una lampada a fessura (quel coso che vedete nella foto) da migliaia di centinaia di euro non importa niente: che tanto non lo so usare.

L'occhio sinistro è ok. Almeno per me che non ne capisco niente. L'occhio destro invece ha la pupilla dilatata che non si restringe alla luce. Che - se ci pensate - è una cosa che non va tanto bene.

«C'è una midriasi» comunico al professore, ringraziando con tutto il cuore il corso base della Croce Rossa per avermi imparato questa salvifica parola. «Io farei subito immediatamente prima ancora di qualsiasi altra cosa, una TAC».

Lì per lì, mi sento troppo un figo: c'era una cosa difficilissima da scoprire, ma con l'aiuto di conoscenze generiche e del mio cellulare, ce l'ho fatta. Ora tutti penseranno che sono un grande oftalmologo d'emergenza, e ogni volta che apriranno gli occhi in piscina o che si accecheranno con lo shampoo sotto la doccia si diranno che c'è bisogno di me.

«La midriasi c'è per via del collirio che mettiamo prima della visita» è lo sconsolante referto del docente. «Prima non ce l'aveva».

Uhm. E vabbe': l'oftalmologia d'urgenza mi ha appena voltato le spalle. Ma almeno - mi dico - adesso so che NON ci sono reperti patologici.

«E allora, cosa fai?» incalza il professore.

Cerco aiuto nello sguardo dei colleghi, ma persiste il silenzio generalizzato e la mancanza di idee barra suggerimenti barra dite qualcosa voi che almeno non sono l'unico a fare una figura del cappero. Ma ancora niente di niente: sono stato abbandonato.

Mi faccio coraggio, e uso i dati da me ricavati tramite la pratica clinica per formulare una diagnosi così come si addice a un reale dottore.

«La signora non mostra segni di interessamento nerologico. La vista è normale, non ci sono segni di frattura, non c'è stata perdita di coscienza, ha un aspetto sano e non sembra che l'evento traumatico abbia causato delle complicanze».

«E allora che fai? La mandi a casa?»

Io veramente avrei fatto una lastra del cranio. Ma se gli dici lastra del cranio i chirurghi s'incazzano da morire, che loro stanno troppo avanti per richiedere esami così banali. Per cui, insomma, mi pare che la soluzione sia una sola:

«Sì» dico, con lo sguardo elevato di chi è convinto delle sue parole. Il volto fiero e l'animo spavaldo dei giusti. «La mando a casa, perché la signora non ha assolutamente niente».

E ok. Bravo, no?

Viene fuori che loro invece hanno fatto una TAC, e la signora aveva tipo una frattura orbitale tripla carpiata, di quelle che se non ti operi dopo qualche giorno succede come se avevi visto la cassetta di The Ring. E che io non facendo la TAC ero tipo passibile di una cosa strana che non ho ancora studiato, ma che in reparto chiamano galera.

E va bene, poco male. Come si dice? Chi fa il pane s'infarina. O anche: chi fa, sbaglia. Ed è pure vero che sbagliando s'impara. 

Il guaio è che si dice anche - tante volte - che chi sbaglia paga. Ma quest'ultimo proverbio, ve lo devo proprio dire, non m'è mai piaciuto per niente.

Simone

05/03/13

Perché ho smesso di prendere appunti a lezione.

Io sono quello a destra in mezzo con l'iPhone sotto il banco.
Io ho smesso di prendere appunti al termine del primo semestre del terzo anno di Medicina, quando dopo aver dato un certo esame mi sono reso conto che non avevo ancora nemmeno risistemato i fogli nel quadernone, e che a scrivere tutta quella roba avevo fatto solo una grossa e noiosa faticaccia inutile.

Cioè io ho fatto l'esame, ma le cose che avevano detto a lezione non me le ero manco minimamente riviste... e allora ho capito: seguire quel corso non era servito a un cazzo, e tanto valeva che me ne fossi stato a casa a dormire.

Che se poi il tempo delle lezioni, invece di passarlo all'università, uno lo passasse davvero sui libri, non si avrebbe una preparazione migliore? Se invece di 3 mesi di corso, seguiti da una sessione di appelli tutti appiccicati e sovrapposti, gi esami fossero semplicemente spalmati lungo l'arco dei dodici mesi dell'anno corrente, non si finirebbe con lo studiare meglio e di più?

Ma però purtroppo infatti aimé malauguratamente invece a Medicina c'è la frequenza obbligatoria, per cui o speri che i professori non controllino davvero e non scoprano che non ci vai, o frequenti almeno il numero minimo di lezioni richieste (i 2 terzi) oppure semplicemente non puoi dare gli esami perché ti mancano le firme sui fogli di presenza e ti attacchi al cavolo, anche se magari in realtà sapevi tutto di tutto.

Ma insomma, non sono poi così assolutamente negativo: è anche vero che - seguendo - ti fai bene o male una mezza idea su quello di cui parla l'esame (cosa tutt'altro che ovvia per materie con nomi tipo Metodologia Integrata 2) su cosa piace particolarmente ai professori e su che cosa bisognerà ripetere a memoria come automi privi di umanità per essere promossi. E insomma - anche se per motivi completamente diversi dai presupposti iniziali - le lezioni non sono completamente inutili dal punto di vista dell'esito positivo della prova finale, questo no. E infatti io ci vado sempre, anche se mi annoio da morire.

Studiare volta per volta quello che viene spiegato sarebbe poi un'altra scusa per seguire con infervorata passione, ma è poco attuabile: un po' perché fino a quando non ti ritrovi sotto pressione con l'appello tipo il giorno dopo finisce sempre che pensi: "adesso mi metto a studiare", e invece non fai niente. E non è pigrizia o cattiveria, ma il semplice meccanismo di base che smuove qualsiasi essere umano a fare una qualsiasi azione: la paura di una punizione imminente.

Un altro po' perché andare a seguire è faticoso, e a lezione finita a metterti sui libri non ce la fai. Ancora un po' perché se hai lezioni, tirocini e internati, non so tutto sommato dove dovresti trovare il tempo, e ancora un altro po' ancora perché - con tutta sincerità - buona parte degli esami comprendono nozioni mnemoniche che si apprendono per poi essere dimenticate pochi giorni dopo (a me bastano anche le poche ore dalla mattina al momento in cui mi chiamano per l'orale, purtroppo) e studiarle con largo anticipo è assolutamente inutile.

E insomma, io a lezione mi siedo dietro come gli studenti casinari sul pullman della gita delle medie. Cerco in qualche modo di sentire di cosa stanno parlando, ma ogni due minuti mi guardo intorno, mi perdo in qualche pensiero elevato su quello che mangerei a pranzo, scarico la posta sul cellulare, mando messaggi, scambio qualche parola con i compagni di banco o controllo quello che si dice su Facebook. Se ho dormito poco (come sempre) ho pure un sonno che levati, e in tutto questo il momento più bello è durante la pausa tra una lezione e l'altra, quando vado al bar per un caffé.

Di prendere appunti come dicevo non se ne parla, che tanto è veramente una fatica inutile... fatta eccezione per quei corsi nei quali per superare l'esame bisogna ripetere le cose che dice il docente parola per parola, dove con mia grande prostrazione e infelicità mi toccherà studiare sulle trascrizioni al computer delle lezioni registrate (le cosiddette sbobinature).

Per fortuna che queste sbobinature le faccio in gruppo con un bel po' di altri studenti, per cui a ognuno toccano al massimo un paio d'ore di dettato a semestre, mentre poi alla fine si mette tutto insieme al lavoro degli altri e ti ritrovi una materia interamente sbobinata a fronte di una fatica tutto sommato tollerabile.

L'altro estremo invece sono i corsi dove i professori a lezione dicono 2 (due) cose. Però poi scopri che all'esame te ne chiedono altre 18 (per un totale di 20) e un programma non esiste, quello che trovi sul libro non va bene mentre su Internet trovi magari qualcosa che gli assomiglia ma soltanto nella pagina di Wikipedia in cirillico.

E lì, a quel punto, è normale che uno si chiede: ma allora che stracavolo di accidenti ho seguito a fare, solo per prendere queste benedette presenze?!

E la risposta - in questo caso - è ovviamente, un laconico: sì.

Simone

07/02/13

Il giorno dell'esame.

Parte dell'encefalo che genera ansia durante gli esami.
La sveglia la mattina presto il giorno dell'esame è già di per sé una cosa troppo terribile. Che devi svegliarti ma c'hai troppo sonno, e devi alzarti per forza ma di andare all'esame proprio non ti andrebbe di farlo manco morto ammazzato.

Il giorno dell'esame mi piacerebbe svegliarmi che invece è già il giorno dopo e l'esame è finito, e invece niente: sto ancora nel mio bel lettone che fuori è freddissimo con un sonno che levati, e so con certezza che da lì in poi sarà una lunga - indimenticabile - giornata di merda.

È inverno pieno, e affacciandomi alla finestra vedo che piove pure e insomma - oddio - la morte.

Guido nel traffico con tutto il casino della mattina e della pioggia, e a ogni semaforo provo a riguardare qualcosa su quei cavolo di fogli strasottilineati e scarabocchiati che avrò riletto un milione di volte, ma che tanto non mi ricorderò mai bene come si deve perché non lo so ma al mio cervello proprio non va: è impossibile.

Parcheggio e via con l'ombrello e il freddo e la pioggia e l'infinita serie di fanculo giornata di merda chimmelaffatto fare che continuo a ripetermi da quel giorno del test di ammissione di non so più quanti anni fa.

Arrivo al posto dell'esame e ci stanno un po' di altri studenti, tutti stressati e impanicati e con centomila libri e foglietti e paranoie più o meno inespresse come me. I prof non ci sono e l'aula è chiusa e finisce che stiamo in piedi un'ora prima che arrivi qualcuno. E che gran rottura di palle.

Arrivano i professori: ci stanno il clinico e l'assistente e il chirurgo e poi forse viene il tizio che ha fatto quella lezione ma speriamo di no, che di quella lezione lì nessuno sa un cazzo. Dicono che l'assistente tiene le persone un'ora per uno e speriamo che non chiama me. Il chirurgo invece è quello buono, e speriamo che non arriva pure quello stronzo che boccia tutti che se no siamo fottuti.

Iniziano a chiamare. I nomi scorrono piano piano e il tempo insieme a loro mentre io esco a fumare, poi rientro, poi riesco a bere qualcosa, poi entro di nuovo e poi esco ed entro ed esco di nuovo e insomma seduto fermo non ci so stare. Ogni tanto tra bisbiglii e cose mezze sentite e mezze no esce fuori qualche domanda che non sapeva nessuno ed è un panico di foglietti e cellulari con wikipedie e google vari. Poi magari lo sapevi e non hai capito, oppure hai capito e non lo sapevi uguale... e comunque in ogni caso ormai stiamo qui, vada come deve andare e sticazzi.

Chiamano qualcuno che è poco prima di me. Saranno passate tre ore, ma ormai quasi ci siamo. Butto uno sguardo ai soliti appunti per un ripasso in extremis, ma mi sembrano cose che non ho mai nemmeno sentito nominare e d'improvviso non ricordo più nulla. Se mi mostrassero la mia carta di identità, direi: e questo, chi caspita è?!

Tocca a me, primo orale col primo professore. Vado bene, non benino ma nemmeno benissimo. Gli ho detto un po' di cazzate ma vabbe', poteva andare peggio. Ci possiamo stare.

Torno ad aspettare la seconda interrogazione, e sto a metà tra lo stress del sotto esame e la consapevolezza che ormai è quasi andata. Non so se c'è un nome per questa sensazione di quando un pezzo di esame comunque te lo sei tolto ma non si sa ancora come andrà l'altro. Un mix di ansia e di questa sensazione che forse t'ha detto bene e ce l'hai quasi fatta, quasi. Mi azzarderei a definirlo come un vago ottimismo.

Secondo orale. Qui comincio che è già una schifezza, ma un po' mi riprendo e un po' no e insomma a singhiozzo, con alti e bassi. Mi chiedono una cosa che sapevo fino a 30 secondi prima ma che adesso proprio non m'esce, fanculo a me e alla mia memoria del cavolo ma che cacchio lo sapevo... e invece niente. Per un attimo penso sta a vede' adesso se questo per 'sta cosa mi boccia, però non mi boccia ma insomma manco c'è tutto questo entusiasmo e l'interrogazione finisce così, che so' andato un po' de' merda, diciamo la verità.

Ma la sensazione più bella non è quando ti dicono il voto, o quando torni a casa o quando butti finalmente al cesso quegli appunti maledetti del cavolo. Il bello è quando vedi che ti mettono un voto e che era l'ultimo orale, che vuol dire che l'esame ormai è finito e - vada come vada - sei passato.

Ed è vero che c'è chi alla media ci tiene e tutte quelle storie per la specializzazione e concorsi vari che non vincerò mai, ma io non ho mai rifiutato un voto in vita mia e i giudizi per me non sono dati in trentesimi ma in un semplicissimo passato/non passato facente parte di un insieme booleano.

Passo dal terzo professore, ma questo fa solo la media tra i due di prima. Un voto è un po' meglio, uno è un po' peggio, mi regalano pure qualcosa e tiè: viene fuori un votone. È una settimana che prego che non mi boccino, e poi esce un voto che manco mi meritavo ma nemmeno se proprio studiavo un altro mese ed ero uno normale, di quelli in grado di memorizzare le cose.

Ma c'est la vie: è l'università, e così sono gli esami: una gran fatica di mesi che poi ti giochi tutta in mezza giornata di stress ed eventi assolutamente casuali. Ma quando arriva qualcuno che si vanta di una sua bella laurea cum laude che lui è tanto figo e tanto bravo e capisce tutto lui, pensate sempre che - magari - ha semplicemente avuto un'interminabile serie di botte di culo.

È finita. Verbalizzo, ringrazio, saluto, auguro in bocca al lupo a qualche amico che aspetta ancora nella dimensione del terrore dove vivono gli studenti esaminandi, e me ne vado.

Fuori non piove più. Caffé, sigaretta, finalmente mi rilasso un po'. E un altro esame è andato.

Simone

19/12/12

Quando sono stato male.

Malato dell'800: l'iPad aveva una connessione lentissima.
La sera prima la passo - come tutte le sere degli ultimi tempi - a cercare dettagli relativi alla mia operazione su Internet.

Vengono fuori certi filmati che ti cadono tutti i capelli. Siti che raccolgono opinioni contrarie e angoscianti. Esperienze di gente che si lamenta di sequele, inesattezze, dolori, traumi, effetti collaterali e chi più ne ha più ne metta.

Mi ripeto che su Internet ci vanno solo quelli che hanno da lamentarsi. Gli insoddisfatti e gli insicuri. Su Internet ci scrivono i coglioni come me o chi ha voglia di prendere per il culo la gente o chi tanto non sarà contento mai. Questa consapevolezza mi rassicura un po'. Un pochino. Ma la notte comunque dormo poco.

Sono in clinica alle 9 della mattina successiva. Qualche formalità burocratica, poi mi accompagnano in camera e mi danno un letto.

Verso le 10 iniziano a portare i pazienti in sala operatoria. Le barelle passano per il corridoio fino all'ascensore, e poi di nuovo dall'ascensore fino alle stanze. Spero ogni volta che tocchi a me, ma invece tocca sempre a qualcun altro mentre quel corridoio l'imparo a memoria ripercorrendolo una, dieci, cento volte avanti e indietro.

Le ore non passano mai. Ogni minuto che aspetto è un minuto in più di convalescenza che mi toccherà scontare dopo. Non si può bere, non si può mangiare, non ci si può nemmeno accendere una sigaretta. Sei come in una specie di limbo dove non succede e non puoi fare nulla a parte passeggiare o farti venire sonno davanti ai programmi della mattina in TV.

Verso le 2 un'infermiera entra in stanza e mi dice che è il mio turno. Mi affretto a indossare quel camice ridicolo che ti lascia tutto scoperto come ti muovi un attimo di troppo. Poi entro nel letto e mi infilo sotto alle coperte.

Si parte: mia mamma mi saluta accarezzandomi sulla fronte, mentre mi spingono verso l'ascensore. Le luci del corridoio passano sopra di me, mentre a destra e a sinistra i numeri delle varie stanze scorrono all'indietro in una specie di conto alla rovescia.

Saliamo con l'ascensore, e mi lasciano in una specie di sala d'attesa. Sento i dottori che parlano, qualcuno telefona e altri sono indaffarati a spostare barelle o a discutere di interventi o di chissà che cosa. Mi tiro su le coperte fino al collo, perché fa un freddo della Madonna.

«Io sono l'anestesista» un signore si accosta al letto e mi dà la mano. Poi mi attacca degli elettrodi per il monitor dell'elettrocardiogramma e se ne va.

Arriva una seconda barella con sopra una ragazzina sui 14 anni. Ha la faccia di una che la madre gli ha appena buttato al cesso tutti i trucchi comprati di nascosto e il ragazzo l'ha mollata e le sue amiche non la cercano più e la sua vita è finita e che suo padre gli ha detto che vuole che studi Ingegneria. Vorrei provare a tranquillizzarla un po', ma due infermiere aprono un separé tra noi due e non riesco più a vederla.

Passeranno un paio di minuti, poi l'anestesista torna al mio letto e mi spinge verso la sala operatoria vera e propria.

Mi fanno scivolare su un lettino più piccolo, e in un attimo sono circondato da persone con tute azzurre, verdi, blu, rosa... ma quanti sono? Sembra una specie di film del terrore, ci manca solo la musica col teremin o qualche scala di tastiera superveloce per essere davvero tale e quale.

Qualcuno mi allenta il camice. Qualcun altro mi sposta tirandomi come se fossi un sacco. Mi posizionano un saturimetro su un dito, mentre nell'altra mano mi infilano un ago cannula e sento un male cane che davvero non me l'aspettavo.

«Adesso rilassati mentre il farmaco fa effetto» mi dice l'anestesista. «Così ti addormenti».

«Ma non dovevo fare prima la spinale?» chiedo.

Lo so che sembro l'apoteosi del rompicoglioni all'ennesima potenza, che non si sta buono manco con 10 persone intorno armati di aghi e lame taglienti. Però pensavo di aver capito diversamente.

«No, ti addormentiamo. Niente spinale».

A quel punto io specifico chiaramente il nome del mio intervento, assicurandomi che comunque non è che per caso ci fosse stato uno sbaglio. Lo so: ho visto veramente troppi telefilm coi dottori del cazzo, e comunque mi addormento senza nemmeno sentire la risposta.

Dormo che è una favola. Sogno qualcosa anche, ma non ricordo cosa. Mi pare di aver dormito per ore, come quando sei proprio stremato e dormi che te lo gusti che non ti pare vero... e poi però a un certo punto ti svegliano che non volevi, e hai ancora troppo sonno.

«Abbiamo finito» il chirurgo mi sveglia con una carezza. E poi sparisce, o mi riaddormento io. Non lo so, non ci sto capendo un cazzo.

La prima cosa che riesco a razionalizzare, è che ho un dolore terribile. Una roba che pensi solo che non è possibile che ti faccia davvero così male: capita che uno prende una botta col mignolo su uno spigolo o una storta giocando a calcetto e allora dice che s'è fatto male e sta lì che si lamenta e pare chissà che cosa... ecco, avete presente? Be', invece no: è una cosa troppo peggio. È un dolore assurdo come non l'hai sentito mai, che sta lì e che non passa e per quanto ti agiti e ti lamenti mi sa che a calcetto non ci rigiochi comunque per un bel po'.

«Come va?» l'anestesista mi sta spingendo di nuovo nella sala d'attesa. «L'intervento è andato benissimo».

«Mi fa male. Ho un dolore importante».

Questa espressione del dolore importante non me l'ero manco preparata. Un termine entrato dentro in qualche modo da qualche reparto, e rispuntato fuori dal mio subconscio che anche in un momento del genere non voleva bruciarsi l'occasione di spararsi le pose da studente di medicina secchione sfigato. Il subconscio - non per niente - sta sulle palle un po' a tutti.

L'anestesista indica una pallina di plastica che mi hanno appiccicato al braccio.

«Hai già l'antidolorifoco, adesso ti diamo qualcos'altro».

Quello che ricordo dopo sono una serie di scene tra la sala operatoria e la mia stanza, perché lo spostamento ci sarà stato ma non è che mi ricordo tanto che cosa è successo. So solo che a un certo punto stavo con le flebo, gli antidolorifici e tutta la droga del mondo, con mia mamma da una parte che pregava e io che ogni tre secondi facevo un grugnito come uno che lo sgozzano e mi giravo e rigiravo per trovare una posizione nella quale mi sentissi un po' meglio, ma che tanto non c'era.

E poi quella sete. Come se avessi masticato delle palline di sale, mentre correvo di corsa al Circo Massimo in pieno Agosto con addosso la tuta da sci. Sugli effetti collaterali dei farmaci ci scrivono cose tipo: neutropenia, neurite periferica, al limite diarrea se proprio uno è fortunato. Non ci scrivono mai: ti viene una sete che manco a li cani, questo no. E vorrei tanto sapere perché.

Ma non mi lasciano bere: non si può, è vietato come qualunque altra cosa lontanamente piacevole all'interno di ospedali, cliniche e areoporti, e comunque ho già una flebo di fisiologica attaccata alla vena. Vedo il tubicino che mi entra nella mano: ripenso a quando spiego ai pazienti che come idratazione basta quella, e che di bere non hanno realmente bisogno... e poi mi mando affanculo da solo.

Passa un'ora, e sto giusto appena un attimino meglio.

Passano due ore, e va meglio. Riesco anche a scambiare qualche parola con mia madre che non prega più, e a scherzarci sopra.

Dopo tre ore gli antidolorifici hanno funzionato, e mi fa ancora male tutto ma è un male che tutto sommato non è più niente di che.

Arriva l'ora di cena, e arrivano una specie di brodino con dentro il niente, e quella che a un esame autoptico potrebbe essere una mela frullata. A portarmi il vassoio è una signora piccolina, anzianotta, non indossa un camice ma una sorta di palandrana che le copre il vestito solo sul davanti e la fa sembrare una cameriera. E io ho tanta di quella fame che vorrei abbracciarla e chiederle di sposarmi e portarmi la pastina e la mela per tutto il resto della nostra vita: noi due, soli e insieme per sempre.

Tirarsi su per mangiare è un'impresa, ma ho un sacco di tempo. Il brodino mi leva quell'arsura demoniaca, e già mi sento rinato. La mela frullata è dolce, e dopo quelle due ore interminabili che sono passate è una sensazione così bella che mi scendono quasi le lacrime.

«Era buonissima» dico alla signora di prima, tornata a recuperare il vassoio. «La cosa più buona che abbia mai mangiato».

Lei si mette a ridere, e scuote un po' la testa come a dire che invece no: non è buona per niente.

«Si vede che avevi proprio fame» dice, prima di andarsene.

La notte dormo mezz'ora ogni ora. Mi addormento e mi sveglio. Mi sveglio e mi riaddormento. A un certo punto - e non so come - il catetere s'intreccia con la flebo, e facendo un movimento col braccio gli do uno strattone con tutta la forza che ho. Ma guardiamone il lato positivo: ogni volta che capiteranno discussioni sugli aneddoti dolorosi per decidere a chi è capitato di farsi più male nel corso della vita, vincerò sempre e sicuramente io.

Al mattino mi visitano di nuovo, e quando mi levano il catatere esclamo il "ma porca troia!" più profondamente sentito della mia esistenza. Poi verso le dieci passa l'infermiera, mi chiede se ho fatto pipì e io niente: non mi scappa.

Alle undici passa di nuovo, e io di nuovo nulla: non la devo fare.

Verso mezzogiorno mi scappa un pochino, ma non riesco a farla.

All'una sono io a cercare l'infermiera perché mi scappa troppo, ma non ci riesco. Lei mi dice che non fa niente, e di riprovare più tardi.

Alle due me la sto facendo sotto ma niente: ci provo e ci riprovo, ma la sensazione è come di dover pisciare attraverso il granito e mi viene da piangere solo al pensiero che mi rimettano il catetere, e che poi - cosa peggiore di tutte - me lo tolgano di nuovo.

Alle due e mezza viene a trovarmi mio fratello. Tempo 3 minuti e mi fa incazzare di brutto, scatenando così anche il miracolo. Esco dal bagno entusiasta per avvisare le infermiere e i medici e gli operatori sanitari. Gli altri pazienti, gli operai che vedo dalla finestra dall'altra parte della strada, tutti quanti devono essere informati che ce l'ho fatta e partecipare ai festeggiamenti: devono saperlo tutti!

E da lì in poi è stata tutta in discesa. Medicazioni, farmaci, visite col chirurgo, dolori da tenere a bada con altre medicine... ma il brutto è stato davvero solo in quelle due ore dopo l'anestesia, un po' la notte e fino alla mattinata successiva, quando pareva impossibile anche l'operazione più banale.

A ripensarci, adesso che queste righe sono poco più di un racconto, penso di poter dire di essere stato male. Poco male - tutto considerato - e per poco tempo, ma è stato così. Diciamo che penso di aver avuto un piccolissimo assaggio di cosa vuol dire dipendere totalmente da qualcun altro, perché da solo non ce la puoi proprio fare. Ho capito che anche un minimo di gentilezza in più può cambiare tanto di come vivi una situazione.

Ho capito che quando qualcuno sta male non è come al cinema o nei film, che pare quasi una cosa figa che poi alla fine sono tutti felici o - male che vada - alla fine muore e non ci si pensa più: c'è un livello di stare male che arriva ad annientare le persone. Le strappa via dal mondo e le porta in una dimensione dove non riescono a interagire con nient'altro se non la propria malattia e i propri bisogni più basilari.

Ogni volta che una persona sta male e non riusciamo ad aiutarla, ogni volta che qualcuno soffre e viene lasciato solo, e ogni volta che guardiamo al dolore degli altri con indifferenza, è una tragedia.

E non bisogna essere medici, o ingegneri, o laureati in chissà che altro per capirlo, per sdegnarsi, per voler fare qualcosa, per voler aiutare e curare. Bisogna semplicemente essere umani.

Simone

31/05/12

La musica ha vinto.

L'ultimo disco dei Guns 'n Roses. Tipo.
Oggi ho fatto un tirocinio fino a verso le 3 e mezza - quattro. Era in un ambulatorio interessante, e ho fatto cose interessanti. Magari però ve lo racconto meglio un'altra volta.

Esco dall'università che devo ancora mangiare, e mi fermo a prendere un panino. La giornata è bellissima, e mi godo quella serenità che mi porto fuori quando lascio l'ospedale dopo un turno che mi è piaciuto.

Mi dico che avrei potuto fare più tardi mentre tutto sommato ho tempo, per cui allungo un po' e mi fermo davanti al super mega media-store che sta dalle parti di casa mia. Il problema è che ogni volta che ci vado mi fanno la multa: o mi fregano i vigili che ho parcheggiato davanti ai cassonetti, oppure gli ausiliari se ho preso un posto blu. Ma che cavolo ci posso fare?! I parcometri sono a un miglio l'uno dall'altro, e faccio prima a comprare quello che voglio comprare che a fare avanti e indietro, che fa pure un caldo boia.

Vabbe'. Entro nella superlibreria, ma i libri è qualche tempo che manco li guardo. Mi viene in mente il blog di uno che ho trovato giorni fa: questo non ha evidentemente nulla da fare, ma invece di iscriversi a medicina o trovarsi un lavoro passa le giornate a leggere brutti libri e a spiegare online che i suddetti libri sono - per l'appunto - brutti. Ma io pure facevo così?! Brrr... speriamo di no!

Passo davanti agli scaffali dei blue ray, e pure lì non me ne può fregare di meno: credo di avere in tutto tre o quattro film in DVD, e solo perché me li hanno regalati. Il cinema mi piace con gli amici, così, per passare un paio d'ore. Ma non mi ha mai appassionato. I film sono un po' una rottura di palle, ecco, per dirvi proprio come la penso. Potrei aprirmi un blog e scrivere tutto il tempo di quanto i brutti film che vedo al cinema mi fanno cagare... ma insomma, tutto sommato: e chissene frega?!

Giro di qua e di là, e becco il settore videogiochi. Il mio Supermario è fermo da tanto di quel tempo che ha messo su una trippa che manco entra più dentro ai tubi. L'Xbox sto per regalarlo dopo mesi che non lo accendo, e sul PC ho installato Diablo 3 ma lì sta e lì rimane. Cioè: mi conviene uccidere Diablo, oppure passare Urologia? Che palle.

Alla superturbolibreria c'è pure il settore di libri fotografici. A studio ho una piccola collezione dei miei fotografi preferiti, ma la mia reflex sta lì a prendere polvere e se una volta era un modello che ad andarci in giro ci facevi quasi bella figura, ora è uno scatafascio vecchio 10 anni e c'ho paura che se la vado a riprendere manco si accende e la gente fa foto migliori col telefono e poi mi piglia pure per il culo.

Certo era bello fare il fotografo. Io adoro vedere le immagini ultradefinite di qualche reportage sul mio tablet quando sto spaparanzato sul divano, prima di andare a dormire la sera tardi. Ma di mettermi lì a farle di mio e ritoccarle con Photoshop e poi stamparle e fare il portfolio e prepararmi per le mostre (che a suo tempo ho fatto)... eh sì, lallero! E chi c'ha tempo?!

Ma ecco che ci siamo: il settore musica!

Erano settimane che lo aspettavo, e giorni che non trovavo il tempo di andarmelo a prendere. Però ce l'hanno: il CD di uno dei miei musicisti preferiti. Che poi è sempre il solito hard rock. La solita roba che è sempre quella da quando sono ragazzino... ma tant'è: tutto sommato, forse mi piace proprio per quello.

Scopro che dentro alla confezione ci sta pure il DVD. E sticazzi?! Io il DVD non lo voglio, perché me li devono sempre appioppare per forza questi dischi aggiuntivi inutili del cavolo? Ma vabbe', hanno solo questo e chi si accontenta gode: avete vinto voi, maledetti venditori di DVD superflui!

Pago alla cassa, esco, e sulla macchina non trovo nemmeno la multa. Oggi è proprio il mio giorno fortunato, sarebbe il caso di comprare pure un gratta e vinci e giocarmi la schedina!

Metto in moto. CD nello stereo, e la musica parte nel modo migliore possibile: quattro colpi di bacchette, e poi giù con basso e chitarra.

Parto anche io, e alzo il volume. Faccio attraversare un tizio col cane e alzo il volume. Mi fermo al semaforo e alzo un altro po' il volume.

Scatta il verde, e sono nel traffico con la musica a palla. Mi sento come quindici anni fa, quando tornavo a casa dopo le lezioni di ingegneria. Per tanti, troppi versi, non è cambiato niente.

Solo di tante passioni me n'è rimasta una sola. Una e mezza forse. Le altre sono state tutte spazzate via dal tempo, dallo studio, dall'età, dalla noia o dal semplice rendersi conto che non me ne fregava poi così tanto davvero.

Ma la musica no. La musica non è invasiva, non è noiosa e non ti fa perdere tempo. La musica può essere la colonna sonora assordante di un momento di rabbia, può riportarti a casa a fine giornata, e può farsi leggera leggera per tenerti compagnia mentre studi o lavori.

Parte il solito assolo scontatissimo e telefonato, ma io per la milionesima volta credo nella mia vita alzo ancora più a cannone e mi gaso troppo, mentre i vicini di macchina al semaforo iniziano a guardarmi strano.

Non potrò mai davvero fare a meno della musica, e di momenti come questo.

La musica ha vinto.

Simone

24/01/12

Il mio test di ammissione alla facoltà di Medicina.

Il test di ammissione a Medicina è stata una grandissima rottura di palle.

Quando l'ho fatto io, constava di 80 domande a risposta multipla (le nefaste crocette che segneranno il cammino di ogni futuro dottore) su materie come Biologia, Chimica, Fisica, Matematica, Logica e Cultura Generale.

Se a una domanda rispondevi giusto ti davano un punto in più. Se rispondevi sbagliato era invece un quarto di punto in meno, e a conti fatti conveniva di più non rispondere proprio piuttosto che tirare a indovinare.

Sempre nell'anno in cui l'ho fatto io, nella mia università si entrava con 41 punti su 80. Non tantissimo (in alcuni atenei si entra anche con più di 50!) ma se finivi tra gli ultimi 125 classificati ti spedivano a frequentare in una sede talmente lontana che anche uno di Roma poteva provare l'ebrezza di studiare fuori sede.

Se posso dare qualche consiglio, all'atto pratico dello svolgimento del test le domande di Biologia si trasformano in quiz sulla comprensione di testi. La Chimica si basa sul ricordare a memoria l'elettronegatività dei vari elementi o le loro posizioni nella tavola periodica. Per Matematica si intende in realtà Statistica e calcolo delle probabilità mentre le domande di Fisica sono talmente astruse che - tante volte - non sapevo cosa rispondere nemmeno io che sono ingegnere. La Fisica del test, insomma, è l'unica materia che rimane uguale alla Fisica vera mentre tutte le altre sono delle interpretazioni a mio parere un po' particolari.

Per essere ammessi, conviene allora studiare specificatamente per il test e non preparare le singole materie senza sapere cosa vi aspetterà il giorno della prova. Io l'ho fatto comprando tutti i libri dedicati esistenti al mondo, facendomi pure un corso estivo e svolgendo regolarmente i test degli anni passati dall'inizio alla fine (non fate solo le materie che vi piacciono a voi, che poi il giorno della prova sulle altre andrete malissimo) per rendermi conto di quanto prendevo e di come stavo messo.

E devo ammettere che quella dell'ammissione è stata un'estate particolarmente orribile. Il giorno del test, però, è stato divertente. Cioè: per me che lo vivevo in prima persona ha fatto schifo. Ma se fosse stata una puntata dei Simpson o un film tipo Fantozzi si iscrive a Medicina, a vederlo da fuori non sarebbe stato niente male.

Intanto avevo l'influenza intestinale. Praticamente ho fatto appena in tempo a vomitare nel bagno del Pronto Soccorso del Policlinico, perché subito dopo mi hanno chiamato e sono entrato nell'aula. Per evitare il rischio di imbrogli, poi, eravamo divisi per fasce d'età: gli studenti nati nell'89 erano sparpagliati in una quindicina di aule per tutta l'università. Gli studenti dell'88 stavano divisi in altre 5-6 aule. Poi quelli dell'87, '86 e così via fino a esaurimento dei candidati.

E io stavo nell'ultimissima aula, quella con i candidati vecchi: quelli che non si sa perché c'hanno ancora voglia di iscriversi all'università, quelli che facevano il biologo da 20 anni ma ora basta perché volevano fare il medico. Infermieri che i dottori non sanno fare una minchia ma però vogliono diventarne uno. Altri ingegneri sfigati, pensionati che quella mattina non avevano di meglio da fare e più di qualcuno che si sarà iscritto pensando che - avendo lo stesso cognome - lo avrebbero fatto sedere accanto a figli e nipoti vari ai quali avrebbe furbescamente suggerito le risposte, ma invece no: dividevano per anno d'età, pijatelanderculo.

Durante la prova, la mia paura maggiore era che non mi lasciassero andare in bagno se mi sentivo di nuovo male: tante volte ai concorsi puoi uscire solo dopo un certo tempo, e se la commisione decideva che il test andava fatto senza alzarsi ero fregato. Ma io di sicuro non avrei lasciato che qualche virus stronzo mi fregasse l'iscrizione a Medicina: ho puntato un secchio della spazzatura che stava in un angolo, e mi sono detto "male che vada, vado a vomitare lì dentro". Voglio dire: come sperare in una situazione migliore nella quale sostenere un esame?

Alla fine per fortuna il secchio non è servito, ma la parte di Logica e Cultura Generale è andata malissimo: c'erano tutte domande su roba del Liceo che ai tempi miei nemmeno esisteva, tipo le poesie di Benigni sull'Inferno o un romanzo su due tizi che si stanno per sposare ma poi viene la peste e muoiono tutti. "Chi ha scritto va' dove ti porta il cuore?" è una delle poche cose che mi ricordavo, ma credo che a causa di questa formidabile nozione più di qualche neodiplomato abbia dovuto cambiare carriera.

Biologia invece è andata alla grande. Chimica abbastanza bene, e per Matematica e Fisica me la sono cavata. In totale mi pare di aver raggranellato 51 punti, e credo di essere arrivato 160esimo su 4000 candidati. Ma l'importante, ovviamente, è che sono entrato.

Se posso uscirmene con qualche inutile opinione assolutamente personale, credo che il test di ammissione non dovrebbe esistere. Certo, con tutte le richieste che ci sono, ora come ora non sarebbe possibile nemmeno abolirlo. Eppure io a suo tempo mi sono iscritto a Ingegneria senza dover svolgere alcun test, e gli ingegneri erano comunque una delle professioni più ricercate e nessuno si è mai lamentato - fino a una decina di anni fa - che ce ne fossero troppi.

Credo inoltre che una selezione basata su domande a crocette non premi in maniera giusta le capacità di ogni individuo, e che uno studio puramente mnemonico selezioni persone dotate di un dato tipo di intelligenza, mortificando però altre doti che risultano invece sottovalutate.

L'ultimo consiglio che posso darvi, se in ogni caso vi toccherà sostenere questo test, è di non lasciarvi angustiare più del dovuto: se studiate sul serio è molto probabile che riuscirete a entrare, perché in fondo non è così insormontabile. E se anche dovesse andar male, provate nuovamente l'anno successivo e non prendetevela più di tanto: alla fine, come in tutte le cose, ci vuole anche un po' di fortuna.

Simone

28/12/10

Storie drammatiche realmente accadute - 1

Squilla il telefono.
"Pronto?" rispondo.
"Pronto, Simone?" riconosco la voce di Paolo. "Mi senti?"
Sono felicissimo di sentire il mio amico.
"Sì sì che ti sento. Ciao Paolozzo, come stai? Tutto bene?"
"Eeeeh..." pausa pesantissima. "Hai sentito Roberto?"
Ugh, mi si gela il sangue. Oddio, Roberto... che gli sarà successo? Magari si è rotto una gamba, magari qualcosa di terribile ha colpito la sua famiglia. Prego il Signore che non sia così.

"No" dico, freddo come un iceberg. "Non l'ho sentito. Che è successo?"
Paolo sospira.
"Eh... non ti ha detto di Francesco? Non sai nulla?"
Che sta succedendo? Roberto doveva chiamarmi per avvisarmi di qualcosa che è accaduta a Francesco! Già mi immagino funerali, esequie, amici disperati, parenti da consolare: Dio, fai che non sia morto, fai che non sia paralizzato. Oh santoddio, no!

"Che è successo a Francesco?" chiedo, imploro quasi. "Io non so niente... niente!"
"Eeeeeh..." altro sospirone di Paolo, con pausa funerea annessa.
Poi finalmente si decide a parlare.
"No, devi sapere che Roberto e Francesco hanno discusso, e adesso stanno litigati. Pensavo fosse il caso che lo sapessi".

Il mondo che si era fermato nella morsa di ghiaccio, improvvisamente riprende a girare. Nessuna morte, nessuna malattia senza perdono. Ho solo un sacco di amici coglioni.
"A Paolo" dico, con un sollievo che è quasi un mezzo orgasmo. "Ma vattene affanculo!"

Simone

29/11/10

Emergenza in corsia.

Il semestre inizia ad avvicinarsi alla fine, e uno degli ultimi tirocini lo facciamo in un reparto di medicina clinica. Sarebbe la medicina interna, quella dove i malati stanno a letto per un tempo interminabile mentre i dottori cercano di capire che cos'hanno che non va. Quello che tutto sommato - e per il momento - vorrei saper fare come si deve io, una volta che dovessi laurearmi e diventare medico per davvero.

Questa volta non sono nemmeno troppo in ritardo, e arrivo che gli altri si stanno ancora finendo di preparare. Mollo borsa e giacca, prendo il fonendoscopio e mentre indosso il camice stavolta non ci sono emozioni particolari o chissà quali riflessioni che mi vengono in mente: sta già tutto diventando una nuova routine, e ormai mi sono quasi abituato.

Ci accompagnano in reparto, dove pare che una volta tanto ci lasceranno assistere al giro visite.

"Se vedete le visite non dovete aprire bocca e non deve volare una mosca" minaccia la professoressa. Tutto sommato, mi pare anche giusto.

Non facciamo nemmeno in tempo a iniziare, che ci interrompono: uno dei pazienti non sta bene, probabilmente è il cuore. E' un'emergenza.

La professoressa parte lungo il corridoio, gli altri medici le vanno dietro, dietro di loro gli specializzandi, poi gli altri tirocinanti e alla fine vado pure io. E tutti insieme entriamo in una stanza non dico piccola, ma che in linea di massima sarebbe adatta a contenere un quarto delle persone. In un letto, l'unico, c'è un signore molto anziano. E' agitato, dice che non respira, che si sente male e qualcos'altro che non capisco.

La professoressa si mette accanto a lui, dall'altro lato del letto ci sono gli specializzandi e noialtri stiamo tutti ammucchiati poco più indietro. Di scene con gente che sta male alla Croce Rossa ne ho già viste tante e devo dire che non mi fanno più un grosso effetto, ma il fatto di essere così in tanti mi dà fastidio: un po' perché non è che 20 persone lavorino meglio di 10, o di 3, e mi pare di stare in mezzo alle scatole. E un po' perché con tutta questa gente va a finire che il paziente pensa che chissà cosa gli sta succedendo, e si spaventa: anche questo mi è già capitato, sempre con la Croce Rossa. Magari un'altra volta ve lo racconto meglio.

E insomma, viene fuori che per fortuna Mario, il paziente, non aveva nulla di grave. Cioè, niente di più grave di quello che lo teneva ricoverato lì dentro, intendo. Che poi se ci avessi capito qualcosa ve lo direi anche, ma come mi pare sia lampante c'era un po' troppo casino e alla fine mi sono limitato a guardare. In ogni caso insomma l'emergenza non era niente di che, e la professoressa con medici al seguito decide di riprendere il giro delle visite... con tanto di coda di studenti, specializzandi e chi altro capitava raccattato per strada.

Il gruppo attraversa il corridoio ed entra in un'altra stanza, mentre io resto un po' indietro. Sarà che non mi piace stare in mezzo, sarà che ho le manie di protagonismo, comunque se ci fate caso me ne sto sempre un po' in disparte e anche qui non faccio eccezione. E stando indietro sento Mario che piange mentre parla con un dottore che è rimasto con lui.

"Sto per morire?" gli domanda. Ha visto 30 tizi col camice che entravano tutti insieme per vedere lui, e adesso è terrorizzato. Come da copione.

Io un po' vorrei provare a consolare il paziente, ma che cavolo gli dico? Un altro po' vorrei tornare nel gruppo a vedere gli altri malati e forse addirittura finire anche per imparare qualcosa. Mi affaccio nella loro stanza, e vedo 20 camici bianchi stipati attorno a un letto, mentre per capire anche solo il sesso della persona che stanno visitando penso che ci vorrebbe un binocolo.

E alla fine decido che quel paziente posso anche passarlo, e vado da Mario. Gli hanno messo la maschera dell'ossigeno, e sta lì che piange da solo mentre guarda fuori dalla finestra. E non è che ci diciamo molto: mi spiega che non voleva prendere non so che farmaco che gli hanno dato, e io gli dico che la professoressa gli avrà dato quello che gli serviva e che poi tanto era un farmaco leggero. Mi dice che la moglie è in ritardo, e io commento che in effetti c'era traffico e ho fatto tardi pure io. Si lamenta che ha le mani così fredde da non sentirsele più, e io vorrei tanto non stare solo al terzo anno e capire che cavolo ha... ma questo no, non glielo dico: tocco solo una sua mano gelida, e non dico niente.

Alla fine insomma niente di che. Però già dopo qualche minuto mi pare che Mario si sia un po' calmato, e l'idea che da qualche parte c'è una moglie che deve arrivare consola un po' anche me e torno tra gli altri tirocinanti senza troppi sensi di colpa.

Più avanti vediamo altri pazienti, proviamo qualcosa di pratico tipo polso e pressione e mi fanno anche prendere l'elettrocardiogramma a una signora anziana. Sto in mezzo al gruppo, ma continuo a sentirmi lontano e la realtà di non essere proprio amalgamato né con gli studenti e né coi professori non mi è parsa mai tanto evidente.

Se resti nel gruppo puoi fare tutte le cazzate che vuoi, ma tutto sommato non puoi davvero sbagliare. Segui il binario, stai con la massa e alla fine avrai quello che hanno tutti, senza pensieri e senza problemi. Io quando ho fatto quel cavolo di test di ammissione lo sapevo che il binario ormai era perso di brutto, e che un gruppo mio - inteso come insieme di persone nelle quali riconoscersi per trarre sicurezza - non ce l'avrei avuto mai più.

Ma questa non è una lamentela, un dispiacere o una preoccupazione. E' solo un dato di fatto che ora che scrivo queste righe mi pare assolutamente chiaro. Che cosa comporterà, questo, nel lungo periodo, forse posso presagirlo ma non posso davvero immaginarmelo più di tanto. E vorrei dire che non me ne frega niente, perché un po' tutto sommato è così, ma non è davvero così facile.

Per lo meno, oggi, non mi è parso facile per niente.

Simone

23/11/10

Oggi.

NOTA: quello che segue è il seguito di questo post.

E di quest'altro.

Questi 3 brevi racconti, e probabilmente un quarto (fantasiosamente intitolato ieri) saranno una sorta di struttura portante del libro-raccolta che vorrei fare con tutti i vari post autobiografici che ho pubblicato in questi mesi. Vedremo che ne viene fuori...


Oggi.

Questa mattina non è diversa da tante altre: sveglia prestissimo (almeno per i miei gusti) chiudo gli occhi per quello che mi pare appena un istante, ma quando li riapro l'orologio mi dice che sono improvvisamente in ritardissimo su ogni possibile tabella di marcia. Colazione di corsa, poi in bagno, mi vesto in un minuto e scappo via lasciando la casa che è il consueto disastro.

Fuori piove che pare un'alluvione biblica, e anche il traffico sembra una specie di piaga divina in chiave moderna. Arrivo all'università che la lezione è iniziata da poco. Entro in aula in punta di piedi e cercando di sembrare invisibile, poi passo a lato dei banchi e vado a sedermi tra le ultime file.

Si fanno le dieci, poi le undici. Caffé e sigaretta. Poi mezzogiorno, l'una e finalmente le due.

Il ritorno è sempre più piacevole dell'andata: sarà che c'è meno traffico, o che allontanarmi dall'università mi mette sempre di buonumore. Alla fine arrivo a casa che sono le due e mezza: il tempo di un panino, un po' di frutta e già si sono fatte le tre.

Adesso dovrei uscire di corsa senza pensare a nient'altro, ma non resisto e mi siedo alla batteria. Provo Back in black, Smells like teen spirit, e un pezzo dei Coldplay che a suonarlo è piacevole come quel coso ghiacciato che il dentista ti mette sui denti per capire quante parolacce conosci... ma me lo sta facendo studiare il maestro, e allora mi tocca. Poi faccio un po' di esercizi sui raddoppi: ta ta ta ta, tata tata tata tata, per 10 minuti, e poi basta. Ci starei anche tutto il giorno, ma devo passare in banca e se perdo ancora un po' di tempo va a finire che trovo chiuso. Poi devo andare in ufficio, per cui prendo la borsa e tutto quanto. Mi porto anche il libro di Microbiologia: come sempre finirà che non lo apro nemmeno, ma non si sa mai.

Mi pizzicano gli occhi e ho quella specie di febbre che mi sento quando ho dormito poco e vorrei tornarmene a letto, e sì: chiamarla sonno forse era più semplice. Mentre finisco di preparmi penso che sarebbe ora di sistemare quelle carte che ho sulla scrivania da un mese. Sarebbe anche il caso di fare la spesa, visto che in frigo mi restano solo surgelati e poi magari se ci riesco faccio anche un salto dai miei, così vedo i nipotini. Domani ho quella cavolo di cena fuori... e speriamo che non mi trascinino nel solito locale stracolmo di gente e casino e talmente noioso da far rimpiangere i blog degli scrittori emergenti. Se invece oggi torno presto, magari un'oretta sui libri - prima di andare a dormire - riesco anche a passarcela... vedremo.

Prima di uscire mi do una guardata allo specchio. Ho la solita trippa che sembra che c'ho la maglietta in 3d, ma meno di quella che avevo qualche anno fa. Ho l'aspetto pulito di una persona giovane che si cura decentemente, e l'aria di chi è allegro e senza troppi pensieri dai quali farsi angustiare.

Ed è quasi una sorpresa quando mi rendo conto che mi piace: mi piace essere la persona che sono. Non avrò grossi meriti, non avrò grosse capacità, ma sto cercando di far fruttare le possibilità che ho avuto. In questo momento, non ho rimpianti.

Non mi sentivo allo stesso modo qualche anno fa. Certe cose, certi momenti e addirittura certi libri che ho scritto... anche il blog, il lavoro e i rapporti con alcune persone, il modo in cui vivevo col desiderio bruciante di cambiare ma senza il coraggio di farlo. A ripensarci mi sembra tutto annebbiato, stanco, confuso... come i ricordi che ti restano di quando hai avuto la febbre e stavi male. Come se avessi avuto chissà che strana malattia, che rendeva tutto difficile, complesso e spaventoso.

Non so che cosa avessi realmente, e che cosa mi stesse accadendo. So solo che, adesso, mi sento come se fossi guarito.

Adesso mi sento bene.

Simone

E aspetto ancora i vostri consigli per l'elenco dei migliori ebook gratuiti!

02/11/10

Tutto sommato...

Tutto sommato, credo che sia valsa la pena di laurearmi in Ingegneria. Ora come ingegnere non è che faccia molto, ed è una laurea che avrei potuto sfruttare di più. Però ho imparato a riconoscere un problema e (a volte) a risolverlo. Ho imparato a studiare cose anche difficili, e ho capito che se inizi una cosa è per portarla a termine, o altrimenti è meglio che lasci subito stare.

Tutto sommato, sono contento anche di aver scritto su un blog per tutti questi anni. Certo ora mi sono un po' stancato, l'entusiasmo di una volta non c'è più, e aggiorno raramente. Però ne è uscito fuori un libro, e ho imparato un po' di cose di come funzionano la narrativa e la comunicazione. Ho capito anche che la scrittura oltre che uno strumento è un'arma, e che può farti crescere e imparare ma anche fermarti e lasciarti immobile lì dove sei, con l'illusione che sia già un traguardo.

Tutto sommato sono contento di aver scritto i miei romanzi. Forse non ne ricaverò nulla e forse non ne scriverò mai più un altro, ma mi hanno fatto viaggiare, conoscere altre persone, vivere esperienze e anche alle volte provare emozioni profonde. Oggi mi danno la soddisfazione di rivedere me stesso da lontano e pensare che, a voler essere proprio onesti, non ho scritto cose che cambieranno il mondo, ma nemmeno troppe cavolate.

Tutto sommato, è valsa la pena anche di iscriversi a Medicina. Questa seconda laurea mi sta costando una grossa fatica, e forse non è detto che quello che ci sto investendo darà tutti i frutti sperati. C'è la paura di bloccarmi a metà, la paura di non essere all'altezza e la paura che senza una specializzazione e senza altri anni di studio alla fine non sarò comunque un medico vero, ma solo uno con l'ennesimo pezzo di carta.

Però a Medicina ho studiato un po' come funzionano l'uomo e la sua biologia. Prima certe cose non le sapevo e non le capivo, mentre ora vedo il mondo in una maniera diversa. Adesso so che per quanto puoi uscire da certi schemi tutto sommato era prevedibile anche quello, e che in un meccanismo complesso è necessario che qualcuno, ogni tanto, faccia anche semplicemente un errore.

Quello che sento di aver guadagnato, da tutte queste cose che ho fatto, è di guardare alla vita con un misto di curiosità e paura. Di studiare il mondo restandone continuamente affascinato e forse - un pochino - sperare anche di averci capito qualcosa.

E insomma, alla fine, penso di sì: tutto sommato, ne è valsa la pena.

Simone

14/10/10

L'uomo è ancora vivo.

Alle volte vado a letto con un senso di angoscia, e poi non riesco a dormire.

Penso alle notizie di questi giorni: una ragazzina alla quale un parente ha tolto tutto, dei militari morti in guerra e una violenza quotidiana che lascia esterefatti. Ancora, rivedo malati e pazienti studiati a lezione o incontrati di persona con la Croce Rossa: famiglie distrutte, malattie che non lasciano scampo, persone che non hanno mai vissuto altro che la sofferenza.

Mi sembra sempre di più che viviamo in una sorta di illusione: computer, automobili, cinema, divertimenti... alle volte mangio e bevo fino a sentirmi male, e in tasca ho un cellulare che costa come uno stipendio. I miei problemi sono quasi esclusivamente auto-indotti, e vivo senza sentirmi pienamente padrone della mia vita e del mio futuro.

La cosa che mi angoscia è l'atteggiamento che abbiamo. Sveglia alla mattina, colazione, lunga coda in auto fino all'ufficio, accendo il computer, apro Facebook o il blog o qualsiasi altro strumento di comunicazione (anche solamente la bocca) e inizia un piagnisteo totale: il governo non va bene perchè questo e perché quello. L'impasto della pizza non sa più farlo nessuno, e poi è pieno di persone razziste. Chi ce l'ha coi pellicciai, chi odia i terroni e chi detesta la gente del nord. Pena di morte a questo, vendetta a quest'altro e altri slogan razzisti, violenti, stupidi.

L'interazione con la tecnologia ci ha forse illuso che basti volerla, una cosa, affinché si avveri. Se abbastanza persone si lamentano di un fatto, allora questo fatto cambierà, e avremo un mondo in cui vivere meglio.

A me sembra che viviamo in una sorta di isola felice, un mini-mondo protetto e libero in buona parte dalle devastazioni che affliggono l'umanità, ma non riusciamo a fare altro che parlare di problemi reali o inesistenti, lasciandoci affliggere da questi. Indicare e criticare, spesso in maniera qualunquista e ignorante, senza informarci davvero, ragionare e agire sul serio.

Credo che questo problema sia più della rete e della comunicazione in sé, che delle persone. Non voglio pensare che la gente sia davvero e soltanto così come appare quando magari è scazzata e scrive un messaggio al volo. Io voglio pensare che Internet sia la zavorra che rende difficile farsi un'idea diversa dalla massa, i blog siano il gioco a deprimere e mortificare gli altri, che l'informazione sia pervertita al punto da privilegiare quello che distrugge l'uomo piuttosto che quello che lo eleva e lo gratifica.

Ma le persone no. Le persone, nella loro realtà e umanità quotidiana, sono ancora in grado di riconoscere e apprezzare quello che possiedono. C'è gente che si sente fortunata, e felice, e soddisfatta, e riesce anche a fare qualcosa oltre che - semplicemente - a sparlare e sputare sentenze.

E chi prova a fare e a costruire, non sempre ma spesso - o anche solo alle volte - ci riesce anche. Il mondo ha bisogno di questo: di strade, di medicine, di storie che facciano crescere, di ottimismo e di coraggio, di compassione, forza e spirito di sacrificio. E per quanto ogni volta che apro certi siti o che ascolto certi discorsi mi senta spinto a credere diversamente, io penso che il mondo di oggi sia migliore di quello di ieri, e che un domani ancora più vivibile si possa creare.

Perché l'uomo, l'essere umano, il suo spirito, non si lascia annullare dalla sofferenza. Se fosse così l'accetteremmo e basta. Vivremmo la nostra vita di agi e di superfluo come automi senza emozioni, mentre dietro l'angolo c'è qualcuno che crepa o la gente che si scanna per qualcosa da mangiare. Invece siamo tutti ancora in grado di pensarci, di accorgerci che qualcosa è storto, anche a livello inconscio, con quel malessere che ti prende quando non sai perché.

E se ci lamentiamo è anche perché questa cosa ci fa soffrire, perché ci fa stare male. Perché nonostante tutto il pattume e le cose inutili che ci seppelliscono come una colata di cemento - lì sotto - siamo ancora vivi.

Io credo che dovremmo un po' pulirci la testa. Liberarci dai soliti discorsi, dai soliti presupposti. Dal nostro razzismo e dalla nostra supponenza. Dall'arroganza e dalla rabbia. Dall'idea che se piagnucoliamo abbastanza arriverà qualcuno a fare le nostre cose, al posto nostro.

Dovremmo guardare il mondo intorno a noi per quello che veramente è. Cercare qualcosa, anche un qualcosa di piccolo sul quale potremmo agire, e tentare almeno di interagire con esso. Provare a migliorarlo un po', anche un minimo. Con l'umiltà di chi pensa che forse alla fine non succederà nulla, ma che è sempre meglio che star lì a piagnucolare davanti a uno schermo lampeggiante, insieme a persone che nemmeno conosciamo davvero.

Io penso che, dopo, staremmo un po' meno male.

E credo proprio che ci proverò.

Simone

E - alle volte - ci sono anche buone notizie!

16/07/10

L'ultimo calzolaio.

L'altra sera: tragedia.

Mi arriva un invito all'ultimo momento per una cena in qualche posto molto centrale. Indosso di corsa un paio di jeans, una polo, poi vado ad allacciarmi le scarpe e... strapp! Mi partono i lacci. Cioè me ne parte - nel senso che si rompe e mi resta in mano - uno soltanto, ma le scarpe sono comunque inutilizzabili.

Va bene, ok, ci sono cose più gravi nella vita, e il termine tragedia è stato forse un'esagerazione. Resta il fatto che con 39 gradi all'ombra sono dovuto andare in centro con le scarpe invernali, perché non avevo nient'altro di estivo che non fossero dei sandali o semplici scarpe da ginnastica. E visto che nei locali qui a Roma sono psicopatici, avevo paura che con quelle non mi lasciassero entrare.

Comunque sia sono sopravvissuto, e tra l'altro era un posto talmente scrauso che potevo andarci benissimo anche in mutande... col solo rischio che mi cacciassero via per essere troppo sexy. Il giorno dopo, ho deciso che le scarpe tutto sommato erano ancora nuove, e potevo limitarmi a cambiare i lacci. E così sono andato dal calzolaio.

Mi sono tornati in mente tutta una serie di ricordi di infanzia: il negozietto nel seminterrato, il signore anziano circondato da scarpe rotte (i calzolai erano tutti anziani anche 30 anni fa, sembra strano ma è così) l'odore del cuoio e le macchie di grasso che ricoprono ogni centimetro quadro di qualsiasi superficie, parete, animale o persona che rimanga lì dentro per più di 10 minuti. Se fossi un autore di fantascienza mi inventerei che il grasso in realtà è una specie di alieno sfigato che voleva conquistare il mondo insinuandosi nelle scarpe degli umani. Ma che poi è rimasto intrappolato nella bottega del calzolaio perché - per l'appunto - è sfigato.

Ma ora scrivo cavolate di tutt'altro genere, per cui vi parlo di cosa è successo davvero.

"Ce l'ha un paio di lacci come questo?" domando, tirando fuori da una tasca lo spezzone che mi è rimasto in mano il giorno prima.

Il calzolaio è un signore come già detto anzianotto. Quasi pelato, sovrappesissimo, faccia simpatica e l'aria di chi non ucciderebbe nessuno a sangue freddo, anche se passa tutto il giorno in un seminterrato lurido e buio. Io a queste cose ci guardo sempre.

"Di che lunghezza li vuole?" mi chiede, con un sorriso.

Serviva la lunghezza? Mi dico. Ma porc... !

Ok, velocizziamo: torno a casa, prendo l'altro laccio che è ancora intero, torno lì dal calzolaio e almeno qui sulla carta il problema è risolto. Ma nella realtà, è stata una gran rottura di palle.

"Lo voglio lungo uguale a questo" gli dico, dandogli il laccio stavolta integro direttamente in mano.

Il signore misura il laccio (e lo so che è brutto ripetere sempre laccio laccio laccio, ma non conosco alcun sinonimo da poter utilizzare. A parte stringa, che però non mi piace perché mi ricorda troppo qualcosa che ha a che vedere con la matematica). Poi va nel retrobottega, e inizia a frugare tra cataste di cordini di tutti i tipi.

Ce ne saranno milioni diversi: rotondi, piatti, rettangolari, quadrati, triangolari... e poi colorati, grigi, neri, beige (un colore simile al marrone che vedono solo le donne) a righine e a righette, a pallini e a stelline. Tutti i tipi di laccio di tutte le scarpe mai prodotte da un essere umano... tranne quelli delle mie, che invece erano diversi.

"Se vuole può prendere questi qui un po' più corti" mi dice il calzolaio, trafficando col contenuto di una scatola di cartone. "Basta che ci fa un nodo, taglia la parte che avanza, li gira sotto alla prima asola delle scarpe e ha fatto".

Mentre parla fa anche il gesto di annodare, tagliare e poi qualcos'altro che però non ho capito.

"Forse è meglio che prendo questi altri" dico, scegliendo tra i lacci già pronti un paio che più o meno assomiglia a quelli che cercavo io. "A fare questi lavori manuali sono un po' impedito".

"Non è che a fare un nodo ci voglia tanto" mi spiega il signore.

E questo lo so, è vero. Non ci vuole tanto, e penso che sarei tranquillamente capace. Però di star lì a provare e vedere che viene fuori - per un paio di lacci che costano due euro - tutto sommato nemmeno mi va.

"Ma questi che ho preso sono per il piede destro o per il sinistro?" domando, cercando di cambiare argomento facendo lo spiritoso.

Il calzolaio fa finta di non capire. O forse pensa che sono talmente idiota da dire sul serio, e lascia perdere.

"Comunque altri purtroppo non me ne arrivano" dice, tornando dietro al suo bancone. "Perché tra un po' chiudiamo pure".

Ma chiudiamo chi?! Sarebbe da chiedergli, visto che sta lì da solo in un negozio minuscolo. Poi però mi limito a pagare quello che ho preso, dopo di che saluto e me ne vado.

"E' stato davvero gentilissimo" dico, salendo le scale che portano all'esterno.

Mentre mi allontano, mi domando se mi ha detto che chiude per via delle vacanze, o se chiude - anzi chiudono - perché chiudono per sempre e basta. Certo di negozi di artigiani dalle mie parti ne sono rimasti pochi: gli affitti sono altissimi, e quante stringhe del cavolo devi vendere se pretendi di camparci pure? Sicuramente troppe.

Penso anche che forse non sono davvero troppo impedito per fare certi lavori, ma di sicuro sono troppo pigro per impararli. La cosa assurda è che tra un po' - un bel po' diciamo - avrò due lauree. E quasi tutti quelli che conosco hanno un titolo di studi di qualche genere, o comunque fanno un lavoro intellettuale.

Una generazione di programmatori, grafici, ingegneri, disegnatori, avvocati, commercialisti, informatici, consulenti, venditori e chi più ne ha più ne metta. Tutti stracolti e strapreparati, ma che se si rompe un qualsiasi aggeggio di uso quotidiano facciamo prima a comprarlo nuovo che a metterci sopra le mani.

E il fabbro, il calzolaio, il sarto, il falegname... che fine hanno fatto? Forse non servono più?

Decido che questa è una cosa della quale, forse, vale la pena scrivere: accendo il PC, trascino il puntatore, clicco col mouse, avvio programmi e poi digito sulla tastiera. Click click click click, migliaia di volte, senza quasi nemmeno un errore.

A guardarmi mentre sono al computer, qualcuno direbbe che sono bravissimo.

Simone

28/05/10

Una mezza risposta (un turno al centro di accoglienza).

Centro di accoglienza della Croce Rossa Italiana, in provincia di Roma.

Una serie di palazzoni alti due piani, larghi e tozzi, disposti attorno a una distesa di cemento completamente spoglia. C'è un sole che se provi ad attraversare il piazzale senza coprirti la testa, è capace che ci resti secco.

Ovunque, gruppetti di stranieri seduti all'ombra, per terra o su qualche seggiola rimediata, che ascoltano musica o chiacchierano tra di loro. Qualcuno dei più giovani trova la voglia di giocare a calcio, nonostante il caldo, e corrono dietro alla palla tra il cielo infuocato e l'asfalto rovente. Hanno tutti un fisico da calciatori professionisti, altro che le squadre di calcetto dove ho giocato io, coi miei amici.

Quello in cui mi trovo non è uno di quei centri dove gli extracomunitari vengono detenuti in attesa di essere rimpatriati. Le persone che si trovano qui hanno richiesto lo stato di rifugiati politici, e se vogliono sono liberi di entrare e uscire dal centro come e quando vogliono. Non ci sono cancelli, sbarramenti o altro. Se vuoi, prendi e te ne vai. Poi se alla sera fanno l'appello e non ti trovano, magari perdi il posto, o lo status richiesto, o cosa succede di preciso - sinceramente - non lo so: riguardo a leggi e diritti vari, non conosco assolutamente nulla.

Tra volontari e dipendenti della Croce Rossa saremo una cinquantina. Qualcuno è finito al magazzino, a sistemare scatolame e vestiario. Qualcuno in cucina. Qualcuno è nell'ambulatorio medico a fare visite e medicazioni, e qualcun altro fa avanti e indietro tra qui e Roma per trasportare persone e materiali. Io mi sento sempre un po' a disagio, in queste situazioni: non so cucinare, non so come funziona un campo di protezione civile, non sono né medico né infermiere, non parlo la lingua delle persone che ospitiamo e non ho molte altre esperienze simili a queste sulle quali basarmi.

Io come volontariato insegno rianimazione e vado in ambulanza, e qui queste cose non servono. Certo è che se mi mettevano in magazzino magari per incollarmi le scatole non serviva davvero essere uno scienziato... ma insomma le decisioni non le prendo io, e mi hanno assegnato alla mensa.

La mensa consiste in uno stanzone enorme, con un bancone dove si serve da mangiare, diverse file di tavoli e uno spazio di accoglienza in cui gli ospiti del centro lasciano il proprio nome e cognome in modo tale da tenere l'archivio di chi c'è e chi non c'è. Di volontari al lavoro ce ne sono già un sacco, e non mi sento la persona più insostituibile al mondo, ma decido di fare praticamente l'unica cosa di cui sono capace. Prendo una scopa, una paletta, e mi metto a spazzare il pavimento.

Detto così non pare questo grosso lavoro, e a tutti gli effetti non lo è. Ma in ogni caso pulire una sala dove mangiano qualche centinaio di persone richiede il suo tempo, e alla fine la maggior parte del mio turno la passerò così.

Inizialmente la sala è ancora vuota, perché è presto. Poi verso mezzogiorno iniziano ad arrivare i primi ospiti, e si forma una coda mentre gli addetti alle registrazioni controllano nomi e documenti. A mezzogiorno e mezza devo fermarmi, perché c'è troppo casino per continuare a spazzare senza dare fastidio. Lascio i miei strumenti in un angolo, mi accendo una sigaretta e mi metto da parte a osservare le persone che mangiano.

Tra gli stranieri ci sono persone di tutte le età, ma prevalentemente giovani. Sono arrivati con navi, canotti, o furgoni o forse anche chissà come, non so quanti metodi esisteranno, in realtà. Tra di loro volontari e dipendenti della Croce Rossa, con le loro divise blu o arancioni. Chi prepara i piatti per la gente in fila, chi controlla elenchi e numeri vari, chi lava i vassoi, chi si muove da una parte e dall'altra spostando il materiale e chi dirige un po' tutto.

Tra tutte queste persone, quello che noto di più è un ragazzo che porta una bambina piccola dentro a un passeggino. All'inizio sembra indeciso su quello che deve fare, addirittura smarrito. Poi alcune volontarie che sembrano conoscerlo gli si avvicinano, prendono la bambina e si occupano di farla mangiare, mentre lui si allontana per mettersi in fila per la mensa.

Tempo qualche minuto e il papà torna a sedersi accanto a noi. La bimba ha già finito di mangiare, e uno dei dipendenti della Croce Rossa si avvicina al loro tavolo. Non ricordo il nome di questa persona. Di lui so solo che partecipa sempre a questo genere di operazioni, e che è stato spesso anche all'estero in qualche paese del cavolo. Con sé, porta una busta di plastica con dentro qualcosa.

«Sono venuti con un gommone» mi spiega il nuovo arrivato, mentre prende la bambina per metterla a sedere sul tavolo. «Lei, il padre e la madre. La mamma pare che sia caduta in acqua, ed è affogata».

Descrivere una sensazione come un pugno allo stomaco non sarà l'espressione più originale che possa venire in mente a uno scrittore, ma effettivamente è di sicuro la più adatta. D'istinto mi volto a guardare il padre della piccola: ovviamente non capisce quello che diciamo. Dialoga con un po' di gesti e un po' d'inglese con le volontarie, e ogni tanto si mette un boccone in bocca a mastica qualcosa. Sorride, ma è il sorriso di una persona stanca, quasi stordita. Di uno che sta andando avanti solo per inerzia, e nient'altro.

Il dipendente della Croce Rossa apre la busta che aveva con sé, e tira fuori un vestitino bianco, con una piccola gonna ricamata all'altezza dei fianchi. Credo che si chiami tutù, ma non ci metterei la mano sul fuoco.

«In magazzini abbiamo anche vestiti per bambini piccoli?» gli domando.

Lui scuote la testa.

«No. Ho visto ieri che era qui col padre, e gliel'ho comprato io».

Detto questo prende la bambina, e inizia a metterle il vestito nuovo. Infila le maniche e chiude i piccoli bottoni con la rapidità di uno che di certe cose ha esperienza, e io penso che non sarei capace nemmeno a fare quello. Quando ha terminato mette la bambina in piedi sul tavolo, e osserva il risultato finale con un'espressione soddisfatta. Alla fine le dà un bacio sulla fronte. È un bacio sincero, come fosse una figlia sua.

Io torno a spazzare il pavimento della sala. Cosa ti aspetta nella vita - mi chiedo - se nemmeno nasci che è già tutto un disastro? Sarò mai quello che fa la differenza, o resterò sempre uno che passa, dà un'occhiata tanto per, e poi se ne va? E che futuro ci aspetta, a noi tutti, in un mondo che è uno schifo del genere? Nella testa ho diecimila discorsi, dubbi e domande, e per nessuna ho nemmeno mezza risposta.

Finito il mio turno monto sul furgone che mi riporterà a casa. Sono stanco, un po' confuso forse, ma è stata una giornata che ricorderò a lungo e - tutto sommato - non è andata male come temevo.

Alla sera poi arriva la notizia: hanno trovato la madre della bambina piccola. Era con un altro gruppo di rifugiati, in un centro di accoglienza più a nord. Domani si riuniranno di nuovo.

E il mondo fa un po' meno schifo.

Simone