31/03/10

Nuova recensione di Io scrivo.

La trovate sul sito Autori esordienti, che ringrazio di cuore.

Simone

29/03/10

Ho fatto una donazione per Haiti.

Queste cose di solito non si dicono, ma si fanno e basta. E - che ci crediate o meno - mi vergogno anche un po' a parlarvene: in fin dei conti mi sembra quasi di vantarmi per una cosa che - tutto sommato - non mi pesa molto e non richiede particolari sforzi o sacrifici.

Anche se ne parlo solo adesso, poi, questi soldi per Haiti li ho dati già un paio di mesi fa: sono stato in banca e ho fatto un versamento, non vi dico quanto (non tanto) e non vi dico a quale associazione (una delle tante). Non l'ho detto nemmeno ai miei amici, o ai miei genitori: un po' perché pensavo che non ci fosse proprio niente da dire, e un po' perché come già detto alla fine mi imbarazza anche un po' parlare di queste cose, e penso che non andrebbe fatto.

Però, ecco, alla fine ci ho riflettuto un po' sopra: io ho questo blog, scrivo e tutto il resto. Sono uno che s'è messo in testa di comunicare, di trasmettere dei messaggi. Di interagire col mondo attraverso la parola, per quanto la sola idea di qualcuno che dà retta a me per prendere una qualunque decisione mi faccia venire i brividi.

E allora, vedendo le cose da un diverso punto di vista, forse non è così sbagliato parlare di questa cosa. Vi giuro che è stata una donazione infima, quasi che sperassi di ricostruire un intero paese con gli spiccioli che mi sono ritrovato in qualche vecchia giacca. Eppure, alla fine, mi sono detto che se magari cento persone leggono il mio blog, novantanove penseranno che sono uno sfigato che si dà un sacco di arie e gli starò anche sulle palle. Vero, verissimo e forse anche un po' giusto. Il centesimo lettore, però, oltre al fatto che gli starò comunque sulle palle, magari si ricorda anche che una donazione voleva farla pure lui. Solo che poi ha avuto da fare col lavoro, coi figli, la spesa, alla posta che c'era la fila e chissà quanti altri impicci che alla fine la cosa gli è passata proprio di mente.

Insomma, magari adesso qualcuno leggerà il mio blog, e si dirà che forse finalmente è anche la volta buona di farla, questa benedetta donazione. Per cui, ecco, anche se giuro che un po' mi vergogno sul serio, ho pensato che valesse la pena buttarsi un po' in mezzo e scrivere le quattro righe che avete appena finito di leggere.

Qualche indirizzo che potete contattare per inviare dei fondi lo trovate a questo mio vecchio link. In ogni caso, sono sicuro che la vostra banca avrà già un suo conto corrente attivo per Haiti, per cui potreste anche chiedere direttamente a loro.

Simone

26/03/10

L'università, dopo i 30 anni.

Un breve aggiornamento sui miei studi di Medicina, e una piccola riflessione che ho fatto in questi giorni:

Intanto, riguardo alla seconda laurea, oggi sono finiti i corsi e iniziano le "vacanze" pasquali. Vacanze l'ho messo tra virgolette perché tra lo studio e tutta la roba che ho da sistemare in ufficio e altri cavoli vari non so se e quanto riuscirò a starmene un po' tranquillo, ma comunque a lezione non mi tocca andare e se non altro è sempre una cosa in meno di cui preoccuparmi.

Tra una decina di giorni ho l'appello di Anatomia 3, e se andrà bene mi sarò tolto un macigno che ho (letteralmente) sulla testa ormai da prima delle vacanze di Natale. Sinceramente non sono tanto convinto di un esito positivo, perché le cose da ripetere sono tante e il tempo è quello che è, ma comunque tutto sommato mi pare di proseguire abbastanza bene e da qui a Settembre mi aspetto di dare la maggior parte degli esami del secondo anno... in tempo in tempo per iniziare con quelli del terzo.

Ora che vi ho aggiornato sulla mia situazione, parliamo un attimo in generale: in questi quasi due anni da quando ho iniziato a parlare dei miei studi, ho ricevuto un sacco di contatti, commenti e domande da persone che - come me - hanno deciso o stanno valutando l'idea di iscriversi all'università anche dopo l'età considerata "giusta" per questo genere di cose.

Sinceramente non me lo aspettavo, ma ho scoperto che ci sono tantissimi ventenni che hanno perso qualche anno, trentenni e anche gente molto più grande di me che fanno la scelta di rimettersi a studiare, e cercano online o tra chi conoscono eventuali esperienze e consigli da poter seguire.

Solo per fare un esempio, il post con cui annunciavo la mia iscrizione a Medicina sul vecchio blog è uno dei più letti tra tutti quelli che ho scritto, e se ve lo sfogliate un pochino vedrete che ci sono tantissimi commenti da parte di persone che hanno visto nella mia personale esperienza qualcosa che potrebbe coinvolgerli, spronarli o comunque dargli qualche spunto in più per prendere una decisione che, forse, non è facilissima.

A tutte queste persone, e a chi arriverà dopo magari direttamente qui, vorrei solo dire che in fin dei conti il difficile sta tutto nel cominciare, nel dire "sì ok ci provo" e nel cercare un certo equilibrio con cui iniziare. Poi dopo si tratta semplicemente di tenere un po' a bada tutte le cose, e si può scoprire come nel mio caso che tutto sommato la cosa sembra fattibile, oppure come invece è successo a qualche amico che ci sono priorità più importanti e che forse, tutto sommato, conviene lasciar perdere.

Quello che sto cercando di dire è che se siete un po' più attempati del dovuto ma sentite il desiderio di studiare qualcosa di nuovo non siete per niente "strani" o fuori di testa, come potreste pensare. Alla fine la vita moderna è un po' diversa da quella che facevano i nostri genitori. Ci sono più stimoli, si vive più a lungo e si può scoprire solo dopo un certo punto di avere certi interessi che prima ignoravamo. In questi due anni ho incontrato decine di persone, anche più grandi di me, che si sono rimesse sui libri avendo anche un lavoro e una famiglia di cui occuparsi. Tutto sommato insomma è una cosa normale e anche abbastanza comune, e la mia esperienza è solo una delle tante.

Insomma, semplicemente: se ci state pensando non fatevi tutte le pippe mentali che mi sono fatto io, e non vedetela come chissà che cosa. Magari ci proverete e andrà male, magari andrà bene o ancora potrebbe andare che ancora non si sa, come nel mio caso. La cosa di cui sono certo è che la mia vita di oggi è molto più serena e soddisfatta di quella che facevo 2 anni fa, continuamente a chiedermi se fosse ora di provare a diventare quello che volevo essere oppure no. E ripeto che ancora non so come andrà a finire, ma ora come ora se si trattasse di ricominciare da capo non ci penserei due volte.

Tutto qui, insomma. Era solo una riflessione che volevo lasciarvi, sperando che sia proprio quello che qualcuno cercava e che serva magari a chiarirgli qualche dubbio. Poi come sempre sono a disposizione con l'email e con i commenti, se volete chiedermi dell'altro.

Il post di cui vi parlavo, con tanti interventi di altri studenti "anziani" come me, lo trovate qui.

E ora vado a studiare Anatomia, che sto davvero inguaiato ^^.

Simone

24/03/10

Ci mancava pure questa...

Se lo chiedete a me, penso che seguire tante cose e avere tante passioni è il modo più sicuro per non pontarne avanti in maniera decente nemmeno una. Se poi penso a tutta la roba che ho da studiare per Medicina, mi dico che il corso di batteria era proprio l'ultima cosa di cui avevo bisogno per riempirmi la giornata.

Eppure era da tanto che ci pensavo. Da ragazzino ho provato a suonare il pianoforte, la chitarra, il basso, e ogni volta dopo un po' di tempo mi rompevo le palle, non combinavo un cavolo e finiva sempre che non ci mettevo mai più sopra le mani.

Invece, ogni tanto, mi capitava di vedere una batteria e pensare che sembrava una cosa un po' diversa, e che magari potevo provarci. Magari mi sarebbe anche piaciuto, oppure no. Che ne sapevo, senza provare? Ma il problema era soprattutto un altro: come fai a suonare una batteria in casa?

E insomma c'ho messo una vita a decidermi, ma alla fine eccola qua: proprio uguale identica a quella che vedete nella foto. Quando ne ho voglia mi metto le cuffie, collego il lettore MP3 e inizio a suonare dietro alle mie canzoni preferite. Non bisogna stare lì a fare movimenti impercettibili con le dita, non bisogna premere dieci tasti contemporaneamente sperando di non sbagliarne nemmeno uno, non bisogna leggere spartiti impossibili con diesis, bemolle e noiosità varie.

Qui servono solo due pezzi di legno e qualcosa su cui sbattere e che faccia più rumore possibile. Poi basta seguire un po' il tempo, e in qualche modo esce fuori la musica.

E ora scusatemi, ma torno a suonare.

Simone

20/03/10

Un editore per Giovanni Buzi.

Non so se lo conoscevate o meno, e non so se sono io il primo a darvi questa cattiva notizia: Giovanni Buzi, uno scrittore e artista che come tanti di noi frequentava da anni tanti blog, forum e siti letterari, si è spento pochi giorni fa a causa di una tremenda malattia.

Adesso io non conoscevo Giovanni così tanto da poter dire qualcosa di valido e importante su di lui. Purtroppo ci siamo incrociati online tante volte, ma il nostro rapporto non è andato più avanti dello scambio di qualche opinione su questo o quell'altro argomento.

Conosco però molto meglio Cinzia Pierangelini, un'altra scrittrice che ho anche incontrato di persona più di una volta. E Cinzia ha avuto una bella idea: qualche tempo fa aveva scritto un libro a quattro mani insieme a Giovanni. Si tratta di una storia romanzata su una serial killer, nata da quanto ho capito per essere inserita in una collana editoriale che non sembra destinata a partire in tempi brevi, se non del tutto.

A Cinzia, e a noi tutti, credo, farebbe piacere adesso che questo libro trovasse un editore, così da portare avanti ancora e per quanto possibile il lavoro di autore al quale Giovanni si è dedicato per tutta la vita.

Vi lascio con l'appello di Cinzia Pierangelini, e con il link al suo blog attraverso il quale lasciarle eventualmente un messaggio.

Simone

Non so chi ricorda l'idea lanciata, e immagino abbandonata, da Forte su una serie di libri sui serial killer, io e Giò ne avevamo scritto uno insieme sulla Cianciulli. Volevo dire che sarei felice di rinunciare ai miei diritti d'autore (lo so: eventuali) per vederlo pubblicato e dare così ancora voce a Giovanni. Se un editore fosse interessato e se voi voleste diffondere ne sarei lieta. (ovviamente i diritti di Giovanni sono fuori discussione). Datemi una mano, su!

Cinzia Pierangelini
http://cochina63.splinder.com/

16/03/10

Qualche chiarimento (più o meno) dovuto.

Chi segue questo blog e magari è interessato alle mie vicissitudini come autore (a questo punto credo che ci sia anche qualcuno a cui interessa più il mio percorso universitario ^^) avrà visto benissimo che è un po' di tempo che parlo di inviare manoscritti, pubblicazioni, editoria e cose del genere.

Insomma è un bel po' che non parlo di scrittura in sé e per sé, limitandomi all'aspetto più pragmatico (per non dire anche di basso livello) di quella che io ritengo essere la normale attività di un autore.

Il fatto è che ho l'impressione che la cosa stia magari non tanto allontanando qualche amico/lettore (spero che quando c'è un post più interessante tanta gente torni comunque a leggermi) ma sicuramente dando un certo fastidio a più di una persona.

A partire da chi mi dice che non dovrei pensare a pubblicare ma solo a scrivere, passando per chi vuole convincermi che tanto è inutile anche solo perderci tempo, e fino ad arrivare a chi mi consiglierebbe di lasciare semplicemente perdere la scrittura per dedicarmi piuttosto alle corse dei cavalli, mi pare comunque che il mio comportamento degli ultimi tempi sia stato non solo semplicemente frainteso (perché a me tutto sommato non è che pesa così tanto stampare un po' di manoscritti e spedirli) ma soprattutto visto come una deriva negativa da autore-scrittore a autore-piagnone che non fa che lamentarsi di (supposti) insuccessi e fallimenti vari.

Esempio lampante di questa situazione è il commento di un'amica del blog, che vi riporto insieme a quella che è stata la mia risposta.

Dilva: hai mai pensato di accontentarti di tutto quello che hai "FATTO"?

Insomma caro tu scrivi, e l'hai pubblicato il libro, e c'è gente che ti conosce... nella rete è famoso il tuo blog...

Questo è quello ti vogliono dire gli "Scrittori Famosi" come li chiami tu...
credi in ciò che fai, credici e non arrenderti, e accontentati di quella piccola cerchia di persone che ti leggono. Se non sei famoso non è perchè non scrivi bene o che altro, se non sei famoso è perchè magari non scrivi quello che piace alla "massa", non scrivi quello che piace ad una percentuale altissima di persone in italia, in europa e così via...

Smettila di dannarti per sta cosa!
Accontentati di quello che hai, perchè purtroppo sono solo quelle le persone a cui piace quello che scrivi.

Sappi che l'editore pubblica in base a ciò che i lettori richiedono, e se non richiedono ciò che scrivi tu che ci vuoi fare?
Devi scrivere quello che piace alla massa?
NO!
Dunque scrivi quello che ti piace scrivere, e manda pure i tuoi racconti agli editori, ma piantala di dannarti per essere pubblicato...
Questo vuol dire credi in ciò che fai, e senza pensare di dover piacere ad altri o di essere pubblicato. Ciò che conta è lo scrivere in se, e se ti leggeranno 100 persone invece che 4 milioni, cosa cambia?
Soldi?
Fama?
Cosa?
Dimmi.
Devi crederci ed essere sicuro di te e non pensare a quello che sarà, tu fallo, se funziona ok se no, fregatene.
Facendo così esalti solamente la tua insicurezza, devi essere sicuro di te, e devi piantarla di scrivere post del genere, sul problema che non ti pubblicano. Altrimenti i lettori non leggeranno neanche più il blog capisci?
Ciò che conta è lo scrivere in se, il resto è letteratura :)

ciao e rifletti...


E questa è stata la mia risposta:

Ci avevo pensato. Cioè, immaginavo che qualcuno mi avrebbe cazziato perché - anche se non era quella l'idea - in questo post sembra che mi stia ancora lamentando perché non mi pubblicano, eccetera eccetera.

Il fatto è che c'è una serie di incomprensioni di fondo:

Prima di tutto, non voglio diventare famoso. Dico che voglio pubblicare i miei romanzi, e tanti mi rispondono che sono un montato a voler diventare famoso e tutto il resto.

Io voglio pubblicare i miei stupidi romanzi, punto. Poi venderò come vendono tutti gli scrittori che pubblicano i libri e che non si fila molto nessuno, ma di diventare conosciuto e noto non è che non me lo aspetto, ma non ci tengo proprio perché la gente famosa è spesso infelice e depressa e stanno tutti a rompergli le scatole.

Poi il mio è ANCHE il blog di uno scrittore. Conosco scrittori che hanno blog pure loro, e sui loro blog scrivono le cose che fanno.

Uno ci racconta che sta presentando un libro.

Uno ci racconta che il suo libro vende bene.

Uno ci racconta che odia gli scrittori emergenti, e che l'editoria italiana fa schifo.

Uno ci racconta che ha mandato dei manoscritti, e che sta chiedendo in giro qualche consiglio, che però non capisce tanto. E questo sono io.

Non capisco che c'è di strano. Cioè, dovrei mandare i manoscritti e non dirlo? Dovrei affrontare delle difficoltà e tenermelo per me?

Quando ho pubblicato Io scrivo l'ho detto a tutti e ho postato anteprime e informazioni varie. Ora parlo di quello che faccio adesso, che è l'università, lo studio, le storie che sto leggendo e anche il lavoro di manoscrittura che alle volte è faticoso.

Quello che noto è come una sorta di repulsione, da parte di molti. Visto che è un casino pubblicare i romanzi dovrei semplicemente arrendermi come hanno fatto un po' tutti, e non sforzarmi di raggiungere un obiettivo.

Davvero, credete che per altri sia stato diverso? Adesso uno della Delos ha avuto un successo enorme, ma non v'immaginate del culo che s'è fatto per anni? Le litigate, le porte in faccia, i libri scritti sotto pseudonimo per vendere di più e tutta la trafila di rito?

Io lo faccio perché lo voglio fare, perché non vedo il senso di fermarsi a metà senza spingere un altro po' sull'acceleratore. E no, non ci vedo questa fatica indicibile e stressante che vede qualcuno. Per me la scrittura è sempre e comunque fatica, non è un gioco ma è una parte della vita e nella vita io cerco di ottenere certe cose. Poi che non arrivino può accadere, ma chissene frega scrivere non è l'unica cosa importante che faccio, e questa è solo una fase della scrittura che magari presto o tardi passerà pure.

Simone


Ok. Ci tenevo a rendere pubblica questa risposta, e ringrazio Dilva per avermi concesso di riportare il suo intervento.

Chiarisco e sottolineo di nuovo che non mi sento nemmeno minimamente uno scrittore fallito, come dice invece qualcuno su Anobii. Lo scorso anno ho pubblicato il mio primo libro, l'università è andata benissimo (che non c'entra tanto con la scrittura, ma è sempre una cosa che in qualche modo ricollego a questo blog) ho scritto altre cose di cui vado orgoglioso e mi aspetto, con un po' di fortuna, di pubblicare presto qualcos'altro. Se poi non accadrà non me ne frega niente, si vede che doveva andare così. Amen. Intanto almeno ci avrò provato.

In ogni caso mi dispiace molto di aver dato un'immagine tanto negativa, e mi scuso sinceramente con chi segue questo blog e che magari si è un po' rotto le scatole di certi discorsi. Per il futuro mi sono ripromesso di scrivere molto di più e parlare di scrittura molto di meno, e la prima cosa che è venuta fuori è il post/racconto di qualche giorno fa, che trovate qui.

Se non lo avete letto, spero che vi distrarrà da queste chiacchiere davvero noiose... e mi auguro soprattutto che vi piaccia.

Simone

13/03/10

Una serata normale.

Turno serale in ambulanza.

Siamo fermi in postazione. Qualcuno è fuori a fumare e qualcun altro guarda la televisione, mentre si parla del più e del meno, quando arriva la chiamata del 118. Il capo sede prende il servizio: un ragazzo si è chiuso in casa, non apre e non risponde al telefono. In passato ha sofferto di depressione.

In queste situazioni hai subito la sensazione che la cosa stia per finire davvero male. Ma forse per chi non ha mai vissuto certe brutte esperienze il fatto non è tanto chiaro, per cui ve lo spiego meglio: se qualcuno si è chiuso in casa, non risponde al telefono, non fa alcun rumore e non apre a nessuno - generalmente - vuol dire che è morto.

In un attimo prendiamo i giacconi, montiamo in ambulanza e partiamo in sirena. Tempo cinque minuti e siamo sul posto: una villetta di quelle a schiera, alta un paio piani, con un bel giardino intorno. I vigili del fuoco arrivano subito dopo la nostra ambulanza, saltano fuori dal mezzo e iniziano a preparare una scala per entrare da una finestra. Attorno a noi, si stringe un gruppetto di persone che va a mano a mano crescendo.

Tra tutti quanti, noto una donna sulla cinquantina che tiene le braccia incrociate sul petto. Prima guarda in alto, verso il terrazzo del primo piano. Poi guarda i pompieri, subito dopo guarda noi dell'ambulanza e infine ricomincia da capo. È in una specie di loop ansioso.

Una ragazza si avvicina per dirci qualcosa. Avrà al massimo venticinque anni, non è molto alta, con occhi e capelli scuri. Dev'essere una parente della persona che stiamo soccorrendo. Magari la sorella, o la cugina.

«Suo padre è morto ieri» ci spiega, in tono basso. «E lui s'è chiuso in casa e non risponde al telefono. Non è la prima volta che lo fa».

«Il padre aveva qualche malattia?» gli domanda Stefano, l'infermiere dell'ambulanza.

«Non aveva nulla» a rispondere è la donna ansiosa di prima, che si è avvicinata. A questo punto, immagino che sia la madre. «È morto così, all'improvviso. Non se l'aspettava nessuno».

La donna ha la faccia di una persona stanca. Di quando succedono troppe cose, tutte terribili, e tutte insieme. Io mi chiedo come dev'essere perdere qualcuno da un giorno all'altro, senza nessun preavviso, e mi sembra di sentire una mano che mi stringe il collo. Meglio chiedersi qualcosa di meno angosciante.

Adesso i vigili hanno finito di sistemare la scala. Uno di loro si arrampica, salta sul balcone ed entra da una finestra che era socchiusa. Tempo un minuto, e la porta dell'appartamento è aperta.

«Il ragazzo sta in camera da letto» spiega il pompiere. «Dice che non apriva perché non voleva sentì nessuno».

Poi si rivolge a Stefano.

«Che ce vuole parlà lei, dotto'?»

L'infermiere annuisce, e s'infila per il corridoio seguito da una specie di processione: un po' di pompieri, la madre del ragazzo, la sorella che forse invece era la cugina, io, Paolo che è l'autista dell'ambulanza e infine Alessandra, una volontaria arrivata da poco e che sta ancora facendo il tirocinio. Un po' di gente entra in camera del ragazzo, mentre io resto nel salotto insieme a Paolo e un paio di vigili del fuoco: contrariamente a quello che pensano in molti, non è che più gente si accalca attorno alla persona che sta male, e prima si risolve il problema. Tante volte è addirittura il contrario.

Tempo pochi minuti, però, e inizia un altro movimento: il ragazzo esce finalmente dalla sua stanza, e la madre vuole parlare con l'infermiere da sola, per raccontargli di non so che cosa senza che lui possa sentirla. I pompieri cominciano a risistemare la scala sul loro automezzo, mentre Paolo e Alessandra escono fuori per preparare la barella, nel caso debba servire. Com'è e come non è - non so davvero come cavolo sia realmente successo - a un certo punto mi ritrovo completamente solo insieme al paziente.

Con paziente mi riferisco alla persona che non apriva alla porta, ovviamente. Il ragazzo a cui è morto il padre. Quando fai un soccorso, le persone devi chiamarle così: forse perché altrimenti non si capisce chi sta male e chi invece lo accompagna soltanto, e arrivati in ospedale poi uno si confonde. O forse perché così non sembra proprio una persona vera, e ti fa un po' meno impressione. Ma per questa volta usiamo il suo nome: Riccardo.

Riccardo avrà meno di 20 anni. È magrissimo, coi capelli neri tagliati con la zappa e tutti scompigliati. Ha una faccia pallida, stanca, e un'espressione afflitta. Entra in salotto dandomi giusto uno sguardo veloce. Poi si siede sul divano, e abbassa lo sguardo verso il pavimento.

Di colpo l'aria diventa come un blocco di ghiaccio, e la realtà m'investe come un treno: suo padre è morto il giorno prima, e non si sa nemmeno perchè. Sono davanti a una persona che sta male per una sofferenza ingiusta, enorme, che lo colpisce con tanta forza da non volerci nemmeno pensare. Nella stanza siamo solo io e lui, e questo silenzio che ci schiaccia come una colata di piombo.

Devi parlarci un attimo, è quello che mi dico. Devi rivolgerti a lui, e pronunciare una qualsiasi cosa di senso compiuto. Se no la tensione ti ridurrà in poltiglia.

E invece me ne resto lì, con la bocca mezza aperta, senza che ne venga fuori neppure un fiato. Provo a pensare a una frase, un aggancio, un concetto semplice da buttare lì per dare vita a un discorso. Ma nella testa mi ritrovo il vuoto.

Non so assolutamente che cosa cazzo dire.

Mi sento con le spalle al muro: io dovrei essere lì con la pretesa assurda di aiutare le persone, vestito con giaccone, scarpe anti infortunistica, guanti e tutto il resto. Ma se non sono nemmeno in grado di parlare, la verità e che non servo a nulla.

Trova qualcosa da dire, mi ordino. Se resti zitto sei proprio una merda!

Frugo ancora dentro di me, cercando uno spunto che mi salvi da quella situazione. E, quasi con mia stessa sorpresa, alla fine qualcosa arriva davvero: non è una frase intelligente. Non mi fa sembrare forte, importante, o uno di quelli che risolvono i problemi. Però è una frase che contiene almeno un po' di umanità, e in quel momento forse è già tanto.

«Non te l'aspettavi proprio, eh?» gli dico, a bassa voce.

Riccardo alza gli occhi verso di me. Poi scuote appena la testa, senza dire nulla. No che non se l'aspettava. Certo che no.

Per un istante ho paura che torni il gelo. Ma poi il ragazzo guarda la mia divisa, e sembra rianimarsi.

«Mio zio lavora al pronto soccorso» dice. «Magari lo conosci?»

«Non lo so, io non faccio molti turni. Ma come si chiama? Magari lo conoscono i miei colleghi».

Mentre rispondo, sento un sollievo che quasi mi scalda. Ormai è andata: stiamo parlando, e il momento terrificante di un attimo fa è già sparito. Tempo due minuti e tornano anche gli altri. La tensione si allenta, e a forza di parlare ci troviamo in una situazione che sembra quasi normale. L'emergenza si risolve con un niente di fatto: ormai la nostra presenza non serve più, e rientriamo in postazione lasciando Riccardo insieme alla sua famiglia.

Un paio di giorni dopo, mentre sono all'università, non mi sento troppo bene. Sono stanco, agitato, mi viene l'ansia. A lezione non riesco a stare fermo, e devo uscire dall'aula. Quando hai vent'anni certe cose le subisci e basta, ma quando ne hai più di trenta, invece, ci pensi un po' di più. Ti domandi che cosa cavolo sta accadendo. Che cosa ti è successo, per sentirti così?

E allora mi sono ricordato di Riccardo, e di quell'intervento. Lì per lì non me ne ero reso conto, ma quel turno di ambulanza me lo sarei portato appresso ancora per un po'. Tornato a casa, ho preso una birra e ho provato a rilassarmi. Tutto sommato ho pensato che fosse normale sentire il peso di certe esperienze. L'importante è rendersene conto e - se necessario - prendersi il tempo che ci vuole per metabolizzarle.

Mi sono sforzato di analizzare l'angoscia che mi sentivo nel petto, e mi è parsa normale anche quella. Ero un banale, noioso e scontato essere umano, che prova le stesse emozioni che provano tutti. Che vorrebbe non morire mai.

Ho pensato anche alle persone che amo, e alla paura che ho di perderle. E mi è venuta voglia di andare a trovare i miei, e stare un po' con loro.

Ed era tutto, sempre, disperatamente normale.

Simone

10/03/10

Oggi ho visto questo coso qui:

Che poi non sono sicuro che fosse proprio questo modello qui, della foto presa da Wikipedia.

Comunque sia, era in vetrina. In un negozio di telefonia, elettronica, computer. Accanto a lettori MP3 vari, cellulari vari e cose tecnologiche che abbiamo tutti varie.

Sono anni che parliamo di lettori di ebook, e io ne possiedo anche uno, ma è la prima volta che lo vedo in un negozio normale, indirizzato alla vendita a un pubblico normale.

Ebook e normalità sono due parole che ancora non vanno tanto daccordo, e io sinceramente non sono sicuro al 100% che riusciranno davvero ad accordarsi un po' meglio come invece dicono in tanti.

Ma comunque questa cosa che ho visto sicuramente ha un suo peso, perché una volta che la gente lo vede in vetrina magari finisce anche che vuole comprarsene uno.

Staremo a vedere che cosa succede.

Simone

08/03/10

Credere in quello che scrivo.

Mi hanno detto.

Cioè, intendo quello che dico nel titolo: se voglio arrivare da qualche parte, come scrittore, mi hanno detto di credere in quello che scrivo.

Non persone da due soldi, eh! Gente che insomma di editoria ci capisce. Parlo di editor e di scrittori famosi. Ogni tanto ne becco qualcuno online, e allora glielo chiedo sempre: senti, scrittore famoso. Come faccio a pubblicare un romanzo con un editore decente? Qua non mi si fila nessuno!

E loro, tante volte, insieme a tanti consigli generalmente poco efficaci (visto che di romanzi, al momento, ne ho pubblicati zero) mi dicono appunto di credere io per primo nei miei lavori, e andare avanti.

Ma, ecco, io mi sono chiesto: che cavolo significa 'sto consiglio qua? Se ho scritto una cosa è ovvio che ci credo. O forse non è ovvio, ma se pure non ci credo e penso che sia una vera minchiata, che cosa cambia quando la spedisco a qualcuno? Non è che ci sia un legame empatico tra me e gli editori: loro mi buttano sempre nel secchio senza passare dal via, che io come autore ci creda oppure no.

Eppure avrà un senso, 'sta cosa. Come si crede in quello che uno scrive? Vediamo, non lo so, le prime cose che mi vengono in mente:

- Spedire il proprio manoscritto a milioni di editori. Fatto.

- Rompere l'anima alla gente online, chiedendogli di potergli mandare qualcosa da leggere. Fatto.

- Partecipare a eventi, manifestazioni e rotture di coglioni varie, solo per farsi conoscere.

- Pensare che i miei romanzi siano così fighi da metterli online autoeditati e impaginati e copertinati, così che li leggano tutti e possano insultarmi a piacere. Fatto.

- Telefonare alle case editrici e chiedere: va bene se vi mando questo romanzo? Fatto.

- Rileggere i miei stessi libri di tanto in tanto, e pensare che sono ancora meglio di come li ricordavo. Fatto.

- Continuare a scrivere, anche dopo l'ennesimo rifiuto. Fatto.

- Leggere i libri degli altri, e pensare che scrivono tutti peggio di me. E sì, ok, lo ammetto: fatto.

- Pagare qualcuno per pubblicare il mio libro, visto che tanto è così bello che avrà sicuramente successo. Fatto anche questo, ma qui forse era meglio se ci credevo di meno.

- Aprire un blog per pubblicizzare la mia scrittura, e ripetere fino allo sfinimento che ho scritto tanti libri ma che nessuno me li pubblica perché il mondo è corrotto e crudele. Questo l'ho fatto, fatto, fatto. Tre volte.

E ok, che altro posso inventarmi? Cioè, come si crede più di così in quello che uno ha scritto? Se ero qualcun altro, magari a quest'ora mi ero anche rotto le palle, ma invece sto ancora qui che scrivo.

Lo sapete che c'è, alla fine? Mi sa tanto che io in quello che ho scritto ci credo, e magari pure un po' troppo.

Il problema, forse, è farlo credere anche alle persone giuste.

Simone

01/03/10

La mia seconda laurea in medicina: secondo anno, secondo semestre.

Breve aggiornamento universitario, sperando di fare contenti quelli che sono interessati più alla mia (eventuale) carriera medica che a una mia (eventuale) carriera nell'editoria. Se poi siete interessati a entrambe, anche meglio.

Come avrete capito già dal titolo (che poteva essere un aggiornamento sufficiente già da sé), oggi sono ricominciate le lezioni. Adesso posso dire a tutti quelli che incontro di essere al secondo semestre del secondo anno della mia seconda laurea. Se lo avessi saputo prima mi sarei iscritto alla seconda università di Roma... e invece, purtroppo, sono solo alla prima e il giochino di parole non funziona per niente. Peccato.

In questo semestre ho lezione tutte le mattine (più o meno) dalle nove all'una. Che non è male, visto che 4 ore sono solo 2 materie mentre in genere quella davvero pesante è la terza. Il fatto è che il semestre è bello lungo (3 mesi pieni) e forse per questo i corsi sono più diluiti.

Gli esami che devo preparare adesso sono:

- Anatomia 3, già mezzo preparato a febbraio (ma non ho avuto il coraggio di presentarmi) e con un appello che si terrà ad Aprile. Se lo passo ho finito le anatomie, e sarò uno dei pochi esseri umani ad avere una conoscenza universitaria che abbraccia tanto la scienza delle costruzioni quanto il sistema nervoso. Il fatto poi che probabilmente non mi servirà a una minchia è una questione secondaria, che al momento non mi interessa discutere...

- Biochimica 2, che dovrebbe essere l'esame più difficile di medicina. O quasi.

- Fisiologia 2 e Microbiologia, che non promettono particolari difficoltà. Ma è da vedere come sarà il corso.

- Metodologia 4 che non so nemmeno di che parla, ma sono poche ore per cui sarà tranquillo. Speriamo.

- E poi c'è pure inglese. Buffo come io abbia pagato corsi costosissimi per anni per imparare le lingue, e ora che mi obbligano a seguire delle lezioni gratuite (be', non proprio) non ne abbia la minima voglia né intenzione. Ma tant'è, sono poche ore pure queste.

Per tirare qualche somma, sono abbastanza convinto di togliermi Anatomia 3 ad Aprile o (facendo le corna) a Giugno. Poi dipende: io punto a dare tutto entro settembre, perché non ci tengo a restare indietro con gli esami. Se comunque dessi almeno Biochimica mi sarei tolto i più grandi mattoni dei primi anni, e inzierei davvero a riprendere fiato.

Poi vi spiego un'altra cosa. Molti medici, se gli chiedi di farti entrare in ospedale o di insegnarti qualcosa di pratico, ti rispondono che devi prima fare Anatomia e Fisiologia perché soltanto dopo potrai effettivamente capire qualcosa delle misteriose operazioni che si compiono nei reparti.

Ovviamente questa è una boiata (tra l'altro nessuno mi ha mai detto che serviva aver dato Biochimica, visto che evidentemente non se la ricordano nemmeno loro) eppure tant'è: se faccio Anatomia e Fisiologia poi, passata l'estate, posso anche entrare in qualche reparto. Se aggiungiamo il fatto che per semplici motivi anagrafici mi scambieranno tutti per un dottore vero, anche con una certa anzianità sulle spalle, è chiaro che forse, e dico forse, passato questo semestre le cose inizieranno a farsi molto più interessanti.

I prossimi 5 mesi, invece, saranno solo corsi, esami e notti passate a studiare. Come del resto è già stato per 18 che sono passati.

Ma ormai penso di averci quasi fatto l'abitudine... ^^

Simone