Turno serale in ambulanza.
Siamo fermi in postazione. Qualcuno è fuori a fumare e qualcun altro guarda la televisione, mentre si parla del più e del meno, quando arriva la chiamata del 118. Il capo sede prende il servizio: un ragazzo si è chiuso in casa, non apre e non risponde al telefono. In passato ha sofferto di depressione.
In queste situazioni hai subito la sensazione che la cosa stia per finire davvero male. Ma forse per chi non ha mai vissuto certe brutte esperienze il fatto non è tanto chiaro, per cui ve lo spiego meglio: se qualcuno si è chiuso in casa, non risponde al telefono, non fa alcun rumore e non apre a nessuno - generalmente - vuol dire che è morto.
In un attimo prendiamo i giacconi, montiamo in ambulanza e partiamo in sirena. Tempo cinque minuti e siamo sul posto: una villetta di quelle a schiera, alta un paio piani, con un bel giardino intorno. I vigili del fuoco arrivano subito dopo la nostra ambulanza, saltano fuori dal mezzo e iniziano a preparare una scala per entrare da una finestra. Attorno a noi, si stringe un gruppetto di persone che va a mano a mano crescendo.
Tra tutti quanti, noto una donna sulla cinquantina che tiene le braccia incrociate sul petto. Prima guarda in alto, verso il terrazzo del primo piano. Poi guarda i pompieri, subito dopo guarda noi dell'ambulanza e infine ricomincia da capo. È in una specie di loop ansioso.
Una ragazza si avvicina per dirci qualcosa. Avrà al massimo venticinque anni, non è molto alta, con occhi e capelli scuri. Dev'essere una parente della persona che stiamo soccorrendo. Magari la sorella, o la cugina.
«Suo padre è morto ieri» ci spiega, in tono basso. «E lui s'è chiuso in casa e non risponde al telefono. Non è la prima volta che lo fa».
«Il padre aveva qualche malattia?» gli domanda Stefano, l'infermiere dell'ambulanza.
«Non aveva nulla» a rispondere è la donna ansiosa di prima, che si è avvicinata. A questo punto, immagino che sia la madre. «È morto così, all'improvviso. Non se l'aspettava nessuno».
La donna ha la faccia di una persona stanca. Di quando succedono troppe cose, tutte terribili, e tutte insieme. Io mi chiedo come dev'essere perdere qualcuno da un giorno all'altro, senza nessun preavviso, e mi sembra di sentire una mano che mi stringe il collo. Meglio chiedersi qualcosa di meno angosciante.
Adesso i vigili hanno finito di sistemare la scala. Uno di loro si arrampica, salta sul balcone ed entra da una finestra che era socchiusa. Tempo un minuto, e la porta dell'appartamento è aperta.
«Il ragazzo sta in camera da letto» spiega il pompiere. «Dice che non apriva perché non voleva sentì nessuno».
Poi si rivolge a Stefano.
«Che ce vuole parlà lei, dotto'?»
L'infermiere annuisce, e s'infila per il corridoio seguito da una specie di processione: un po' di pompieri, la madre del ragazzo, la sorella che forse invece era la cugina, io, Paolo che è l'autista dell'ambulanza e infine Alessandra, una volontaria arrivata da poco e che sta ancora facendo il tirocinio. Un po' di gente entra in camera del ragazzo, mentre io resto nel salotto insieme a Paolo e un paio di vigili del fuoco: contrariamente a quello che pensano in molti, non è che più gente si accalca attorno alla persona che sta male, e prima si risolve il problema. Tante volte è addirittura il contrario.
Tempo pochi minuti, però, e inizia un altro movimento: il ragazzo esce finalmente dalla sua stanza, e la madre vuole parlare con l'infermiere da sola, per raccontargli di non so che cosa senza che lui possa sentirla. I pompieri cominciano a risistemare la scala sul loro automezzo, mentre Paolo e Alessandra escono fuori per preparare la barella, nel caso debba servire. Com'è e come non è - non so davvero come cavolo sia realmente successo - a un certo punto mi ritrovo completamente solo insieme al paziente.
Con paziente mi riferisco alla persona che non apriva alla porta, ovviamente. Il ragazzo a cui è morto il padre. Quando fai un soccorso, le persone devi chiamarle così: forse perché altrimenti non si capisce chi sta male e chi invece lo accompagna soltanto, e arrivati in ospedale poi uno si confonde. O forse perché così non sembra proprio una persona vera, e ti fa un po' meno impressione. Ma per questa volta usiamo il suo nome: Riccardo.
Riccardo avrà meno di 20 anni. È magrissimo, coi capelli neri tagliati con la zappa e tutti scompigliati. Ha una faccia pallida, stanca, e un'espressione afflitta. Entra in salotto dandomi giusto uno sguardo veloce. Poi si siede sul divano, e abbassa lo sguardo verso il pavimento.
Di colpo l'aria diventa come un blocco di ghiaccio, e la realtà m'investe come un treno: suo padre è morto il giorno prima, e non si sa nemmeno perchè. Sono davanti a una persona che sta male per una sofferenza ingiusta, enorme, che lo colpisce con tanta forza da non volerci nemmeno pensare. Nella stanza siamo solo io e lui, e questo silenzio che ci schiaccia come una colata di piombo.
Devi parlarci un attimo, è quello che mi dico. Devi rivolgerti a lui, e pronunciare una qualsiasi cosa di senso compiuto. Se no la tensione ti ridurrà in poltiglia.
E invece me ne resto lì, con la bocca mezza aperta, senza che ne venga fuori neppure un fiato. Provo a pensare a una frase, un aggancio, un concetto semplice da buttare lì per dare vita a un discorso. Ma nella testa mi ritrovo il vuoto.
Non so assolutamente che cosa cazzo dire.
Mi sento con le spalle al muro: io dovrei essere lì con la pretesa assurda di aiutare le persone, vestito con giaccone, scarpe anti infortunistica, guanti e tutto il resto. Ma se non sono nemmeno in grado di parlare, la verità e che non servo a nulla.
Trova qualcosa da dire, mi ordino. Se resti zitto sei proprio una merda!
Frugo ancora dentro di me, cercando uno spunto che mi salvi da quella situazione. E, quasi con mia stessa sorpresa, alla fine qualcosa arriva davvero: non è una frase intelligente. Non mi fa sembrare forte, importante, o uno di quelli che risolvono i problemi. Però è una frase che contiene almeno un po' di umanità, e in quel momento forse è già tanto.
«Non te l'aspettavi proprio, eh?» gli dico, a bassa voce.
Riccardo alza gli occhi verso di me. Poi scuote appena la testa, senza dire nulla. No che non se l'aspettava. Certo che no.
Per un istante ho paura che torni il gelo. Ma poi il ragazzo guarda la mia divisa, e sembra rianimarsi.
«Mio zio lavora al pronto soccorso» dice. «Magari lo conosci?»
«Non lo so, io non faccio molti turni. Ma come si chiama? Magari lo conoscono i miei colleghi».
Mentre rispondo, sento un sollievo che quasi mi scalda. Ormai è andata: stiamo parlando, e il momento terrificante di un attimo fa è già sparito. Tempo due minuti e tornano anche gli altri. La tensione si allenta, e a forza di parlare ci troviamo in una situazione che sembra quasi normale. L'emergenza si risolve con un niente di fatto: ormai la nostra presenza non serve più, e rientriamo in postazione lasciando Riccardo insieme alla sua famiglia.
Un paio di giorni dopo, mentre sono all'università, non mi sento troppo bene. Sono stanco, agitato, mi viene l'ansia. A lezione non riesco a stare fermo, e devo uscire dall'aula. Quando hai vent'anni certe cose le subisci e basta, ma quando ne hai più di trenta, invece, ci pensi un po' di più. Ti domandi che cosa cavolo sta accadendo. Che cosa ti è successo, per sentirti così?
E allora mi sono ricordato di Riccardo, e di quell'intervento. Lì per lì non me ne ero reso conto, ma quel turno di ambulanza me lo sarei portato appresso ancora per un po'. Tornato a casa, ho preso una birra e ho provato a rilassarmi. Tutto sommato ho pensato che fosse normale sentire il peso di certe esperienze. L'importante è rendersene conto e - se necessario - prendersi il tempo che ci vuole per metabolizzarle.
Mi sono sforzato di analizzare l'angoscia che mi sentivo nel petto, e mi è parsa normale anche quella. Ero un banale, noioso e scontato essere umano, che prova le stesse emozioni che provano tutti. Che vorrebbe non morire mai.
Ho pensato anche alle persone che amo, e alla paura che ho di perderle. E mi è venuta voglia di andare a trovare i miei, e stare un po' con loro.
Ed era tutto, sempre, disperatamente normale.
Simone
12 commenti:
Stupendo post.
Davvero straordinario.
Da farci un racconto sopra, per dire. O un romanzo. O anche solo un pensiero.
Ora lo faccio leggere a mio padre.
Non se se sia più deprimente o rincuorante il fatto che siamo tutti così dannatamente simili.
so*
Francesco: grazie. Il racconto in fondo era proprio questo, sono contento che ti sia piaciuto... era un po' che parlavo solo di scrittura o di università, era ora di cambiare anche un po' registro.
Helldead: credo che ci sia una parte di noi, quella più "bassa" nella scala evolutiva, che resta identica in ogni persona e che ci rende simili almeno a un livello sul quale la nostra coscienza non riesce a intervenire più di tanto.
Poi è il modo in cui scegliamo di reagire che ci rende diversi, forse. Però non so se sia un bene oppure un male, non ci ho mai pensato più di tanto.
Simone
Quoto Francesco.
Hai già trasformato in un racconto un'esperienza vera. E pensare che io, che non sono scrittrice, mi immagino invce il seguito, lineare e spontaneo, un coontinuo che mi si è visualizzato spontaneo nella mente.
Chissà perché.
Hai detto: Ero un banale, noioso e scontato essere umano, che prova le stesse emozioni che provano tutti. Che vorrebbe non morire mai.
Sei davvero sicuro che sia sempre così? La tua esperienza, forse proprio riflettendo sull'accaduto qui narrato, non ti ha portato alla mente altre ipotesi sui desideri dell'animo umano?
Non è una domanda provocatoria: te lo sto davvero chiedendo per capire.
Per capire se, quando un volontario come te, si trova - a volte - a contatto con chi crede la propria vita non abbia forse più senso, scatta davvero lo stesso l'istinto di sopravvivenza?
Grazie per questo post.
A volte ci rincuora e a volte ci atterrisce, essere tutti accomunati dallo stesso destino.
Il più delle volte non ci si pensa. E'più facile. Ma ci sono dei momenti in cui diventa impossibile non indugiare in certi pensieri.
Tuttavia non ritengo che sia la parte più bassa di noi a renderci così simili. Non penso che la questione sia legata ad un ancestrale istinto di sopravvivenza: quello ce l'ha anche un animale selvaggio.
Secondo me è proprio la coscienza di noi stessi, l'essere consapevoli che un giorno dovremo morire e che oggi siamo vivi, a renderci umani e per questo diversi da ogni altro essere viventi di questo Pianeta.
E' al tempo stesso un dono e una maledizione.
P.s: complimenti per il post, è molto bello e trasmette emozioni potenti.
Dama: alla lunga più che i volontari il personale che lavora vicino a certi malati rischiano il cosiddetto "burnout". Una sorta di depressione legata ai lavori stressanti.
Per cui insomma se all'inizio può esserci un istinto che ti spinge a reagire poi alla lunga ci si può semplicemente abbandonare.
Poi c'è anche chi trova un equilibrio... insomma non è lo stesso per tutti, credo.
Mr. Lunastorta: non so se è solo quello, comunque è una riflessione interessante.
Grazie a tutti per i complimenti!
Simone
Bello, bello, bello...
"mentre io resto nel salotto insieme a Paolo e un paio di vigili del fuoco: contrariamente a quello che pensano in molti, non è che più gente si accalca attorno alla persona che sta male, e prima si risolve il problema. Tante volte è addirittura il contrario." qui avrei voluto batterti le mani... Non è da tutti. E forse questo il gesto più utile che avresti potuto fare a quel ragazzo in quel momento... Ciao Simone... Alla prossima
Valerio: grazie, e a presto!
Simone
Mi unisco ai complimenti meritati di chi ha apprezzato il post ma più ancora ammirato il tuo comportamento.
Purtroppo noi, Simo, abbiamo un'età tale che ci conduce inevitabilmente a certi pensieri.
Noi siamo diventati adulti, i nostri genitori invecchiano e il tema della perdita inizia purtroppo a diventare ricorrente per gli animi più sensibili.
Un saluto, dacty
Dacty: già. Poi tante volte penso anche che magari di tempo ne resta ancora molto, e cerco di non pensarci più.
Grazie!
Simone
Interesting for)) ff
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