29/05/13

In Italia non si fa Medicina? L'esperienza di Davide.

L'Italia ha molte colline: forse il problema è questo.
Caro Simone, mi chiamo Davide

Mi sono laureato in medicina a 30 anni (me la sono presa comoda, avevo - e ho - molti hobby, dalla meccanica - ho una CNC ed un tornio - all'elettronica... Bazzico tra operazionali, oscilloscopi, quarzi, PIC, ecc).

Il titolo della mail è dovuto al fatto che ora, laurea alla mano, se potessi farei il cameriere.

Ti chiederai il perchè di questa mia provocazione, ed io ti rispondo che dopo la laurea devi fare il tassista, l'inserviente, il cameriere, il segretario.... tutto ma non il medico (specie se scegli una branca chirurgica).

Personalmente sono stato per 7 mesi in una branca chirurgica (generale) e se dovessi tornare indietro di 7 mesi farei un corso di lingua (tedesco e francese) e lascerei l'italia.

I 7 mesi sono un canonico percorso che si fa post-laurea, al fine di leccare il cu@o ai professori ed avere un aiuto nell'ingresso. Tuttavia, dopo mesi di schiavismo, ho avuto un moto d'orgoglio che mi ha fatto levare gli scudi e dire al professore che non concorrerò piú per quella specialistica.

Proveró in un'altra città, dove chiaramente sono l'ultimo arrivato e quindi non entreró quasi sicuramente, ma meglio stare 1 anno a spasso piuttosto che fare da schiavo 6 anni e non imparare nulla.

In tutta onestà mi sento di consigliarti di potenziarti dal punto di vista ingegneristico, magari andare via da questo paesucolo di mer@a che è l'italia, piuttosto che perder tempo a laurearti in una branca che non ti dà sbocchi se non sei figlio di baroni.

Se potessi tornare indietro io farei ingegneria (ho fatto 1 anno di aerospaziale) e poi abbandonerei l'italia al suo destino, ormai segnato da decenni di malgoverno e - soprattutto - da inesistenti segnali di ripresa, mancando volontà politica e coscienza nazionale e civile/sociale.

Non per scoraggiarti, a me piace medicina... ma in italia non si fa medicina.

Davide

27/05/13

Il tempo per studiare.

Attività sociale studentesca: studiare in biblioteca.
La sessione estiva è ormai iniziata da un po': sono già diversi giorni che ho intensificato lo studio (o almeno ci provo) ed ho già passato il primo dei tanti fine settimana sui libri fino a notte più o meno inoltrata.

Il problema - come del resto è sempre stato anche negli anni passati - è che il tempo che è possibile dedicare allo studio è veramente ridotto all'osso.

E non parlo solo per me, visto che da quanto ho visto è un problema di tutti: ti svegli la mattina che già stai in ritardo per la lezione. Vai lì solo per la firma perché magari non potrebbe fregartene di meno, ed è capace che ti ritrovi pure una lezione tale e quale a qualcosa già fatto negli scorsi anni o dove il docente parla parla parla ma poi - se vai a stringere - facevi prima a studiarti le cose sul libro.

Poi c'è la pausa pranzo tanto per farsi un panino, e il pomeriggio capita che hai un paio di seminari semi-obbligatori o un tirocinio o il reparto o ancora un'altra rottura di palle come andare a farsi mettere una firma sul libretto da qualche docente degli esami passati: che senza tutte le firme non ti puoi laureare, ricordatevelo bene e provvedete prima che sia troppo tardi!

E con tutto che io sono fortunato e abito a 20 minuti di macchina dall'università (c'è chi deve prendere un treno) mi capita di tornare a casa che è già pomeriggio inoltrato, se non più tardi. Aggiungiamo il fatto che nella vita di una persona ci sono anche cose come fare la spesa, lavarsi e magari mangiare una volta tanto seduto a tavola, alla fine se nell'arco della giornata uno decide di prendersi un po' di tempo anche per svagarsi o vedere qualche amico vuol dire che - semplicemente - quel giorno, di studiare, non hai avuto tempo.

E allora finisce che il tempo devi inventartelo, in qualche modo:

Sì può semplicemente non andare a lezione. Ma c'è la frequenza obbligatoria, e molti professori controllano o fanno proprio l'appello... e oltre a essere anche una cosa considerata scorretta (la frequenza, ripeto, è obbligatoria) c'è il rischio di ritrovarsi a non poter dare qualche esame, e personalmente io lo sconsiglio e a lezione ci vado - quasi - sempre.

Si può studiare durante le lezioni: ti porti il libro dell'esame che stai preparando (ma vanno fortissimi anche gli esoneri di farmacologia) e mentre i professori parlano d'altro tu studi per i fatti tuoi. Questa cosa non è nemmeno di per sé fuori da qualunque regolamento (in ogni caso, a lezione ci sei) e l'unico vero inconveniente è che poi resti indietro con la materia che - non - stai seguendo... ma che magari recupererai più avanti, durante le lezioni di un altro corso.

Si può rinunciare ad andare in reparto, oppure andarci il meno possibile. Dalla mia esperienza, quasi tutto quel (poco) che so fare come aspirante medico è nato dal reparto, dalle esperienze con la Croce Rossa, dai tirocini quando li fanno come si deve, e solo in minima parte da nozioni apprese in pochi - selezionati - esami: la farmacologia prima di tutto, alcune basi di anatomia e biologia dei primi anni, e poi parte delle patologie integrate. Tutto il resto mi perdonerete ma per me è nulla applicato alla formulazione di giudizi scritti su dei pezzi di carta... che equivale ad altro nulla.

Poi magari ti rendi conto che certe cose che vedi in ospedale le avevi già studiate, ma non è che basti quello perché sui libri è tutto astratto e tutto confuso e tutto sempre e inspiegabilmente importante al pari di tutto il resto: come se l'infarto o l'otite esterna fossero patologie della stessa e identica gravità.

Non andando in un (buon) reparto insomma si rinuncia a migliorare dal punto di vista medico... e io tra l'altro in ospedale mi diverto anche, per cui non me la sento nemmeno: cioè, perché devo privarmi dell'unico aspetto dell'università che mi piace? E insomma, anche qui, niente.

Ancora, puoi studiare la sera, e la notte. E nei fine settimana, e durante le feste. Che poi è proprio quello che faccio spesso io, specialmente quando sto sotto esami.

Diciamo che durante i corsi studio pochino, ma quando sto sotto esame inizio a tagliare uscite, serate, cene, calcetto, cinema e birre varie. Ci sono periodi in cui inizio a negarmi a destra e a sinistra, e chi mi conosce magari lo sa e ci ha fatto il callo e sa che sono fatto così, e per fortuna non se la prende più di tanto quando inizio a sparire.

Altre volte magari studio fino a tardi, arrivo dopo, prendo una birretta e me ne rivado dopo poco che "domani mattina devo studiare", dico. Quando faccio così credo sia il massimo del secchione antipatico rompipalle che se la tira. ;a tant'è: sarò secchione, sarò antipatico e me la tirerò pure... però - magari - prima o poi, riuscirò anche a laurearmi.

Simone

23/05/13

L'incredibile fisiologia d'urgenza.

Trattato di Fisiologia del passato: beati loro!
Ricordo chiaramente le lezioni dei primi anni di università, dove ci spiegavano che "la glicemia può anche raggiungere valori oltre i 400 mg/dl!".

E che se tipo il valore normale è 100-120, uno si immagina che una volta arrivati a quei valori così alti al posto del sangue i pazienti hanno la marmellata, e con la siringa manco riesci a fare un prelievo.

Poi una sera vado in reparto, e mi fanno vedere la cartella di un paziente che gli fanno lo stick (la puntura sul dito) e niente: gli stara tutto il glucometro e non esce nulla. Gli fanno l'emogas, e pure lì la macchina oltre a un tot non arriva e non esce nessun risultato. Alla fine gli fanno il prelievo normale con l'analisi del laboratorio, e insomma viene fuori che di glicemia aveva 1900. Quasi cinque volte il valore che per la fisiologia era già il doppio di troppo.

Ed è ovvio che il paziente stava malissimo e stava per rimetterci le penne. Però viene pure da riflettere sui livelli estremi che può raggiungere il nostro organismo prima di sgretolarsi, cadere a pezzi, andare a farsi un giro e insomma finire in mano a quel tipo di dottori strani che visitano il paziente guardandone delle fettine sottili al microscopio.

Altro caso: la pressione normale di una persona è sui 120/80 mmHg. Poi magari trovi il signore iperteso che non segue la terapia e arriva a 160/100, 180/110 massimo. E infine arriva il giorno che prendi una pressione a qualcuno e leggi 240/130 che pensi che o hai sbagliato tu (cosa che personalmente penso sempre) oppure che tra un po' si crepa lo sfigmomanometro ed esplode mezzo reparto dell'ospedale.

Veniamo al pH, cioè all'acidità del sangue. Che poi non è acidità ma basicità (visto che il valore normale è sopra il 7) ma insomma basicità suona male e io dico acidità lo stesso.

Vabbè: il valore normale del pH di una persona sana dovrebbe essere intorno a 7,36-7,44. Però se arriva lo pneumologo, a 7,37 vi dice già che il paziente sta per morire e deve essere intubato. Se viene invece il medico d'urgenza per lui a 7,30 stiamo ancora più o meno nella norma e si domanda perché la gente va in pronto soccorso se non ha nulla e così via, insomma, a seconda di intepretazioni anche un po' personali.

Però sono tutti più o meno d'accordo che a un ph che scende a tipo 7,10 dentro al sangue vi si denaturano tutte le proteine (denaturano = si sfasciano) e state lì lì per diventare diversamente vivi, e sotto al 7,10 non c'è mai arrivato nessuno. Nessuno finché poi uno decide di intossicarsi con non so che farmaco, e arriva in pronto soccorso con un pH di 6,80. Ma che possa davvero arrivare a 6,80, se glielo dite all'esame di fisiologia vi assicuro che quelli vi trattano pure male, e vi bocciano.

Che è rimasto? Per il battito cardiaco vabbe': non mi è capitato di vedere valori particolarmente inaspettati. C'è però l'emoglobina (la proteina che porta in giro l'ossigeno all'interno del sangue) che sta mediamente attorno a valori 12-16 g/dl o giù di lì con differenze tra uomini e donne e a seconda di quale libro avete comprato.

Sotto a quei valori si parla di anemia. Sotto a 8 g/dl si parla di anemia grave, che ovviamente è una condizione che non si dovrebbe raggiungere, ma che tutto sommato non è nemmeno così rara da vedere. E poi arriva la signora che non sta poi nemmeno troppo male, fanno le analisi del sangue e trovi una Hgb (emoglobina) = 2 g/dl. Due. E due è molto meno di 12... o di 8, segno che l'ossigenazione delle cellule è una esigenza tutto sommato sopravvalutata.

Concludo con l'ultima cosa che mi è capitato di vedere: signora poverina che sta malissimo. Entra dentro, fanno le analisi per la glicemia e trovano 6 mg/dl. SEI milligrami decilitro, contro i più o meno 100 che dovrebbero essere la normalità.

Se vi ricordate, avevo iniziato con l'altro paziente che di glicemia aveva invece 1900. 1900 contro 6, più di 1800 punti di differenza, un rapporto di 330 a 1 in uno stesso parametro che è di importanza fondamentale per la sopravvivenza dell'organismo.

Il corpo umano è davvero qualcosa di incredibile.

Simone

17/05/13

In mezzo a due mondi.

Questo con l'emogas non c'entra nulla.
NOTA: se vi fanno impressione i prelievi, leggere questo post potrebbe uccidervi. Io vi ho avvisati...

Pomeriggio in reparto un po' caotico: pazienti da tutte le parti, troppi dottori e interni e specializzandi e tirocinanti e infermieri che entrano e escono dai box.

Gente che passa per i corridoi, barellieri, personaggi misteriosi che appaiono e scompaiono di tanto in tanto, e che in quasi un anno non ho ancora capito chi sono. La solita confusione del Pronto Soccorso, insomma.

Non è che oggi stia combinando molto: ho letto un elettrocardiogramma che mi hanno dovuto spiegare, ho seguito un'ecografia della quale ho capito poco. Ho spostato qualche barella e visto una TAC... ma insomma, davvero niente di che.

A una certa ora c'è da fare l'ennesimo emogas (il prelievo dall'arteria del polso) a uno dei pazienti sotto osservazione.

«Chi vuole farlo?» chiede il professore, rivolto genericamente al gruppo di studenti e specializzandi che stanno lì in quel momento.

Attimo di tensione cruciale:

Dovrei dirgli che voglio farlo io. Penso. Però e se poi faccio un casino e sono pure passato avanti a chi era più bravo, e magari il paziente è uno che si lamenta o ci sono i parenti incazzosi... come faccio?

E nel frattempo che io produco tutto questo impavido ragionamento, uno degli specializzandi ha già preso la siringa e l'ovatta col disinfettante e il cerotto. E mentre io sto ancora visualizzando la scenetta delle mie paranoie mentali come nei telefilm sugli ingegneri che si iscrivono a medicina, lui è già lì accanto al paziente. E vabbe', c'ho pensato troppo: sarà per la prossima volta.

Decido comunque di fare presenza. Raggiungo lo specializzando, e lo trovo che sta sentendo il polso del malato per cercare l'arteria e decidere dove bucare.

«Posso sentire pure io, così imparo?» chiedo.

«Certo!» fa lui, scansandosi per farmi spazio.

Io metto due dita, e inizio a cercare il battito. Il paziente non è gran che collaborante, e ha pure un polso molto leggero di quelli che non si sentono: già fare gli emogas è di per sé un casino, ma questo insomma è peggio del solito.

«Non è tanto semplice» dice lo specializzando, leggendomi tipo il pensiero.

Io penso che in effetti non è semplice manco per niente, ma facendo appello a tutte le conoscenze anatomo-chirurgiche impartitemi dagli infermieri del reparto penso che - secondo me - io l'arteria la sento abbastanza bene.

«Sta qua» dico, puntando le dita in punti privi di un interesse anatomico sufficiente a meritarsi un nome. «Pulsa piano, ma è questa».

«Vuoi provarci tu?»

Altra tensione, crucialissima.

Adesso, oltre a fare una figuraccia, passo pure per quello che fa tutta la scena che dice che lui è capace a fare le cose... ma poi, invece, no.

«Certo» riesco a rispondere, stavolta all'interno del limite oltre il quale è tardi e lo fa un altro.

Ora qui c'era tutta la descrizione di come metto i guanti e il disinfettante, e di come i vasi si trovano meglio coi polpastrelli liberi perché col guanto sopra non senti niente e tutto il resto, ma ve l'ho cancellata che era anche più inutile di quest'ultima frase.

Salto invece subito al momento in cui in una mano ho la siringa, mentre coi polpastrelli dell'altra sento l'arteria radiale che pulsa sotto le dita. Ho bene in mente l'infermiera brava che mi ha spiegato che non devo infilare l'ago sperando di prenderci per caso, ma devo sentire la pulsazione e puntare a seguire quella. Per cui insomma mi concentro, sento il punto giusto e prendo bene la mira.

Infilo l'ago. Sento il paziente che si lamenta mentre la punta di ferro buca la pelle e va dentro ai tessuti. Vado giù fino al punto dove mi sembra che dovremmo esserci... ma niente: niente sangue. Non l'ho beccata.

Restiamo calmi.

Le dita stanno sempre sull'arteria, e la siringa è sempre nel polso. Solo che le due cose non si sono incontrate. Ma è una situazione normalissima, e non c'è niente che non va: solo gli infermieri super esperti ci prendono al primo colpo, a tutti gli altri succede sempre così.

Torno un po' indietro con l'ago, come mi hanno insegnato. Cambio l'inclinazione puntando dove sento ancora pulsare, e affondo di nuovo.

Ed ecco cha nella punta della siringa compare uno schizzetto rosso. Vuol dire che sta volta ci siamo, ho fatto centro.

Il sangue esce da solo a pressione, rosso brillante, e riempie in fretta quei 2 millilitri scarsi che ci servono.

«Queste sono le soddisfazioni della vita» ridacchio, sollevato, rivolgendomi allo specializzando. «Penso di avere finalmente capito come si fa».

Finito. Tolgo l'ago, metto ovatta e cerotto e vado col campione verso la sala dove c'è la macchina per l'analisi. Non mi pare nemmeno di camminare, ma mi sento tipo a mezzo metro da terra.

E nell'altra sala, trovo una paziente che è deceduta.

Il marito che abbraccia la salma. I figli subito dietro, in lacrime.

Sento le mie emozioni che fanno le montagne russe: vorrei essere felice e triste allo stesso tempo. Vorrei sia fregarmene che provare compassione. Vorrei solo pensare ai cazzi miei, ma anche sentirmi una merda.

Sono finito in un vortice dimensionale dove i mondi collidono e si possono vivere due esperienze antitetiche in una botta sola. O forse questo è solo il mondo reale così com'è e come funziona e io - per la prima volta forse nella mia vita - sono riuscito a viverne interamente un pezzettino.

Non lo so. Mi sento come se oggi mi fosse successo qualcosa che non capita sempre, ma che in fondo dimostra un'ovvietà. Eppure davvero non so descriverlo meglio. A parole non so spiegarlo - nemmeno a me stesso - meglio di così.

Simone

12/05/13

Fare il medico, senza specializzazione.

Strumento tipico di una specializzazione, che non farò.
Ormai ci penso da un sacco di tempo, e a questo punto penso di aver più o meno una mezza idea di cosa fare dopo la laurea.

Principalmente non vorrei fare una specializzazione. E il fatto che io non lo voglia non vuole necessariamente significare che non ci proverò nemmeno, visto che nella vita uno progetta le cose e poi però succede esattamente il contrario.

Però insomma non mi prende troppo l'idea di specializzarmi per tanti motivi, tra cui - elencando i primi che mi vengono in mente - ci sono:

- Sono veramente molto pessimista sulla possibilità di entrare. Le scuole sono affollatissime, e di aspettare anni per un posto non mi va.

- Non mi laureerò con 110 e lode e tutti i 30 negli esami giusti, e questo rende il discorso specializzazione ancora più utopico specialmente nell'ottica di una possibile riforma che darà ancora più peso a voti e domande a crocette.

- Se mi laureo a 39 anni farò il concorso a 40 anni e - nella migliore delle ipotesi - mi specializzerò a 45. E a me l'idea di passare altri 6 anni a fare lo studente non mi esalta troppo.

- Non sono sinceramente convinto che con una specializzazione si diventi sempre dei medici "migliori". Per me meglio frequentare certi reparti anche solo per imparare, piuttosto che specializzarsi in certi altri per poi trovarsi un titolo senza però le dovute capacità.

- Purtroppo gli studenti (compreso il sottoscritto) sono così spaventati dall'idea di non entrare in specializzazione che vivono l'intero corso di studi come i preparativi per il concorso, piuttosto che come una strada che li porti a diventare prima dei tutto dei bravi medici. Io ho scelto un reparto che mi garantisse più una preparazione che delle possibilità professionali future. Ho fatto bene? Penso di sì, ma continuando su questo percorso dovrò adattarmi alle conseguenze.

- Nell'idea di una chirurgia, dopo la specializzazione serve comunque un periodo di formazione ulteriore, magari all'estero. E iniziare a fare il chirurgo a 50 anni è un po' folle come idea.

- Non sono sicuro che mi piacerebbe lavorare come medico ospedaliero, ma preferirei di più un tipo di lavoro in una struttura o in uno studio privati.

- Che una volta specializzati si venga "assunti" e si trovi il fantomatico lavoro della vita e si sarà soddisfatti e felici di quello che si è ottenuto è auspicabile. Ma le mie esperienze di chi è già passato per studenti che si laureano e vanno a lavorare mi assicurano che non sarà così, o almeno non per tutti: alla fine chi farà il dottore e lavorerà e avrà pazienti e si sentirà gratificato dal proprio lavoro sarà chi avrà più passione, voglia di fare, capacità di adattarsi, intelligenza, umanità e tanto altro.

Purtroppo l'università ti propone la cosa come se con i giusti voti ti sarà dovuto un titolo e con il giusto titolo ti sarà dovuto un futuro professionale e con la giusta professione ti sentirai completo e realizzato... ma questo non è vero. Almeno, non per tutti.

- Io mi vedo come una specie di medico di base con alcune competenze specialistiche: faccio una visita, un ECG, un'ecografia, la gestione di alcune patologie internistiche... ma per la chirurgia o per interventi più complessi mi rivolgerò sempre a un collega specializzato in quel senso.

Penso insomma che lavorare come medico di base/generale privato (non quello che ha fatto il corso triennale ed è entrato in graduatoria e tutto il resto) sia una prospettiva possibile. Difficile ma possibile, e con le dovute capacità penso anche di poter offire realmente un giusto servizio a chi deciderà di affidarsi a me.

Il mio progetto attuale (nel senso che potrà sicuramente cambiare più volte) è di laurearmi in corso. Di fare il tirocinio e iscrizione all'albo. Di fare un master (probabilmente in medicina di emergenza o similare) e di fare i corsi da ecografista. In concomitanza, frequenterò un pronto soccorso e/o uno studio medico o ambulatori o altro.

Così insomma il primo anno post laurea che i miei "colleghi" passeranno a studiare per quelle cazzo di crocette, io lo passerò a formarmi un po' meglio.

Il secondo anno - e i successivi fino alla morte - li passerei facendo magari dei corsi di natura più specifica per patologie internistiche (un master sul diabete, così per dirne una) frequentando una struttura dove fare pratica anche sempre e assolutamente in maniera gratuita, e iniziando ad avviare una attività libero professionale.

Da notare che molti dei miei colleghi - almeno quelli che sono entrati in specializzazione - a quel punto staranno facendo il cosiddetto "tronco comune", frequentando cioè reparti diversi dal loro. Per quanto ne so, a quel punto qualcuno sarà già discretamente bravo (e sarà sempre più bravo di me) e userà questa possibilità per migliorare ancora. Qualcun altro continuerà a reggere i muri e a guardare il lavoro degli altri. Alla fine, insomma, sarà tutta questione dell'impegno che uno ci mette.

Sembra fattibile? A me insomma su due piedi direi di sì. Ma voglio parlarne ancora bene con dei medici più esperti, e magari anche con alcuni dei miei professori.

Simone

07/05/13

Seconda laurea in medicina: reparto, ambulatorio e i prossimi esami.

L'ambulatorio è tipo un ospedale, ma senza niente dentro.
Siamo a Maggio inoltrato, e se per fortuna le lezioni stanno quasi per concludersi è anche vero che - purtroppo - la sessione di esami è sempre più vicina.

Ho iniziato a farmi i conti su come suddividere le varie materie nei diversi appelli, e alla fine la scelta migliore mi pare la seguente:

- Ortopedia e Neurologia a inizio giugno.

- Organi di senso a luglio.

- Psichiatria a fine luglio (il 25!)

- Dermatologia a settembre, con buona pace delle vacanze estive.

Non mi piace tanto l'idea di dover fare due esami attaccati subito subito, per poi lasciarmene altri due al terzo appello col rischio che se vanno male posso ridarli solo a settembre... ma con cinque materie da dare non mi pare ci siano altre soluzioni.

La speranza è di togliermi comunque e nella peggiore delle ipotesi almeno 3 esami tra qui e settembre, e poi recuperare qualcosa all'inizio del sesto anno sperando magari in qualche appello straordinario... che purtroppo però in genere i miei professori non sono molto propensi a concedere.

Intanto ho già finito una prima lettura di Neurologia, e sto piuttosto avanti con Ortopedia. Sono due materie tutto sommato relativamente semplici, con molte parti del programma "riprese" da esami passati oppure piuttosto intuitive. Il problema è che sia per queste due materie che per organi di senso c'è molta Anatomia da rivedere, e anche se poi nella pratica ho qualche dubbio che servano davvero delle conoscenze anatomiche così approfondite sono cose che all'esame vengono chieste, e toccherebbe saperle.

Uso il condizionale perché per fare i vari esami di Anatomia ho impiegato una quantità di tempo mostruosa, e l'idea di riuscire a rivedere tutto per poi ricordarlo come si deve è a dir poco utopica... e specialmente per quanto riguarda la parte di Neuro-anatomia che - almeno per quanto mi riguarda - è davvero, davvero difficile.

Ma insomma io vado avanti a studiare e poi si vedrà, incrociamo le dita.

Continuo poi come sempre a frequentare il reparto. E adesso c'è una novità: il professore con cui frequento il reparto ha iniziato a fare dei turni nell'ambulatorio annesso al pronto soccorso, dove vengono visitati i pazenti meno gravi.

L'idea è quella di una sorta di medicina di base indirizzata a chi si rivolge al pronto soccorso con un problema che - almeno in apparenza - non richiede un intervento di urgenza. E se per uno specialista o per un medico navigato questo tipo di pazienti possono non essere così interessanti, trovo che al contrario per uno studente sia un ottimo modo per vedere patologie molto comuni ma che, per la sempre maggior specializzazione del personale medico, non è detto che durante il corso di studi capiti di affrontare.

Insomma mi è capitato di vedere persone con una faringite, un semplice sfogo cutaneo o un mal di testa. E se per l'appunto si tratta di patologie tutto sommato di semplice gestione, trovo che per uno nella mia situazione si tratti di una palestra incredibilmente utile.

Ora non so quanto spesso mi capiterà di tornare in questi ambulatori nel corso dei prossimi mesi, ma spero che diventi una consuetudine abbastanza frequente.

Simone

03/05/13

Perché una seconda laurea in medicina? 1: Un taglio col passato.

Parlo di tagli e metto le forbici: fantasia, zero.
"Perché ti sei iscritto a medicina?"

Questa è una domanda che mi è stata fatta spesso, in questi anni. Eppure, in tutto questo tempo, non c'è mai stato un vero post o una vera discussione sul perché di questa scelta.

Chi trova il blog sa che facevo l'ingegnere, ma che adesso studio medicina senza una apparente ragione sensata e razionale. Anche perché - tutto sommato - il senso e la ragione, una scelta del genere, spingerebbero a non farla.

Prima di iniziare a fare un (credo) lungo elengo di motivi, ragioni o semplici scuse del perché o percome mi sono rotto di fare l'ingegnere (probabilmente in un prossimo post) voglio chiarire un punto: molte persone arrivano a una seconda laurea o come diretta prosecuzione della prima (finisco di laurearmi nella facoltà X, e poi inizio la facoltà Y che mi interessa di più), o come una sorta di crescita o approfondimento all'interno di qualcosa che fa già parte della loro vita quotidiana: da ingegnere divento anche architetto, da infermiere divento dottore, da chimico faccio ingegneria chimica, eccetera eccetera.

Il mio percorso è un po' differente da questi: io mi sono laureato in Ingegneria Civile, ho fatto l'ingegnere per diversi anni, e a un certo punto ho lasciato la vecchia professione per ricominciare da zero. Comunque sia, insomma, io per un po' di anni e con alti e bassi l'ingegnere civile l'ho fatto davvero, con tanto di corsi ed esami di abilitazione vari post laurea.

Se pensate che, prima di rimettermi a studiare, ero anche una sorta di scrittore con un libro pubblicato e troppi romanzi autoprodotti (nel senso che io volevo fortemente lavorare nell'editoria, e ho provato per molto tempo a farlo) mi sembra chiaro che - nel mio caso - ci sia stato un taglio forte con quella che potremmo chiamare la mia vita passata che, per molti altri che si trovano in una situazione simile alla mia di essere studenti passati i 30 anni, magari non c'è necessariamente stato.

Ovviamente non è che io sia impazzito da un giorno a un altro, puntando a caso un qualsiasi settore che mi allontanasse dalla mia noiosissima professione passata: essendo da tempo un volontario della Croce Rossa, da ingegnere/scrittore che ero ho avuto numerosi contatti con l'ambiente medico e con il soccorso, e mi sono reso conto con il passare del tempo che la medicina mi pareva più interessante di tante altre cose.

Anche il fatto che - come studente - abbia scelto il settore della medicina d'urgenza dove frequentare e fare la tesi, nasce chiaramente dal fatto che è con quel tipo di medicina che ho avuto spesso a che fare prima di decidere di cambiare strada. Ma se devo essere sincero (e onesto), io facevo e faccio ancora un pochino di volontariato, ma non posso certo dire che si tratti di un'attività che mi impegna per chissà quanto tempo o che riempia chissà che parte della mia vita.

Era - ed è anche oggi - un interesse importante, ma non ho mai pensato "ora mi laureo in medicina per trasformare in lavoro quello che faccio come volontario". Non so spiegarlo in poche rige, ma rimanere anche come medico a fare parte dei volontari mi farebbe sempre e certamente piacere. Fare altro e con altre funzioni - invece - non lo so.

Iniziando a studiare medicina, poi, io puntavo principalmente a qualcosa di un po' diverso: come la medicina interna o la medicina di base. Mi piaceva e mi piace ancora l'idea del medico professionista che riceve nel proprio studio, che è piuttosto differente da quello che può essere invece un dottore che lavora in pronto soccorso. E tutto sommato è sempre quella un po' la mia maggiore ambizione.

Nel settore dell'emergenza, invece, adesso ci sto piano piano ricadendo un po' per caso, un po' per attrazione naturale, e un po' perché mi pare semplicemente un ambiente molto più stimolante di altri per imparare davvero a fare il dottore. Ma appunto non ho lasciato l'ingegneria perché mi piaceva l'ambulanza, e volevo fare il medico di quel settore. È stato più un insieme di fattori che un po' sono dipesi da me, e che un po' invece sono arrivati per i cavoli loro.

Arrivo a dire che a me - tutto sommato - non importa molto dell'emergenza in sé. O meglio mi importa eccome, ma mi piacerebbe occuparmi anche di altro. Ma se la scelta è stare 2 anni in sala operatoria a reggere i ferri per fare il chirurgo, in una stanzetta a scrivere cartelle per fare l'internista, ad accodarmi a giri visite con 40 persone in certi reparti o a infognarmi in qualche ambulatorio a vedere sempre la stessa patologia per tanti altri indirizzi... be': almeno, dove sono capitato io c'è quel minimo di varietà in più che potrebbe - un domani - portarmi a diventare un medico un po' migliore. O almeno la mia speranza è questa.

E insomma: perché questo taglio? Cosa non mi piaceva dell'ingegneria e di tutto quello che facevo prima (compresi i miei romanzi) e cosa mi ha attratto fino a questo punto nella medicina?

Tante cose. Ma, come dicevo, per ora ho parlato abbastanza e - se siete arrivati fino a qui - mi scuso tanto ma non posso scrivere un post lungo 100 mila caratteri e che non leggerebbe nessuno (vi ricordo che non faccio più lo scrittore! :).

Per cui, insomma, il resto lo rimandiamo alla prossima volta.

Simone