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06/10/14

Ebook - Simone Maria Navarra - Da ingegnere a medico.

La copertina migliore... di uno che non le sa fare.
Da ingegnere a medico - come penso sia facile intuire - è una raccolta dei post che ho ritenuto più interessanti tra tutti quelli che ho scritto nel corso della mia seconda laurea in Medicina e Chirurgia.

È stato difficile riassumere 6 anni in poche pagine, ed è stato difficile tagliare cose che forse mi sarebbe piaciuto mantenere. Ho puntato però a realizzare un ebook - per quanto possibile - leggero e di veloce lettura, mettendo maggiormente in risalto i racconti dei tirocini e delle esperienze ospedaliere rispetto a quelli dello studio e degli esami veri e propri.

Ho pensato infatti che se trovando il libro qualcuno si scoprirà interessato, potrà sempre seguire il link al suo interno e continuare la lettura sul blog. Annoiare a morte invece dei nuovi lettori con centinaia di pagine di lamentele sullo studio della Biochimica o su quanto fosse stressante avere a che fare con la burocrazia universitaria, non mi pareva al contrario un'impostazione ideale.

Credo inoltre che le esperienze in reparto e - particolarmente - quelle in pronto soccorso siano semplicemente più interessanti di tante altre cose di cui potrei aver parlato nel corso di questi anni, e che valga la pena di sottolineare un pochino di più proprio quelle.

Insomma vi lascio questi due file: uno è il pdf in versione A4 (un normale foglio di carta) che potrà essere un po' più comodo per chi vorrà stamparlo.

Un altro file è lo stesso testo sempre in pdf, ma in un formato più ridotto. Che penso sia più comodo per chi preferirà invece leggere il tutto su un lettore portatile con uno schermo magari piuttosto piccolo.

In futuro magari potrei aggiungere una versione epub, ma per ora non ho troppo tempo per lavorarci e - a essere sincero - dopo tanti anni che non "pubblicavo" (gratuitamente e online) più nulla non mi ricordo nemmeno più tanto come si fa.

Ringrazio anticipatamente chiunque vorrà aiutarmi a diffondere questo piccolo lavoro a cui tengo però tanto, mettendo il link magari sul proprio blog, su facebook, su twitter e dove riterrete più o meno opportuno.

Grazie davvero ancora una volta a tutti per la presenza, i commenti, la collaborazione e tutto quanto il continuo appoggio in questi 6 anni... e - si spera - buona lettura! :)

Da ingegnere a medico - formato A4

Da ingegnere a medico - lettori portatili


Da ingegnere a medico - per dispositivi iOS

Da ingegnere a medico - per Kindle su Amazon

Simone

31/03/14

Quando finisce un turno.

Il va e vieni è una specie di questo (prima che me lo chiediate).
Esco dal pronto soccorso che fuori è già buio.

Mi chiudo la giacca, respiro l'aria fresca e scendo con calma le scale che portano all'ingresso dell'ospedale.

Oggi c'era una vecchina con un'ulcera perforata.

A un certo punto ha vomitato sangue, ed è andata in arresto cardiaco. Oppure è andata in arresto e poi ha vomitato sangue: io non so bene in che ordine, che sono arrivato dopo.

Comunque insomma sono entrato lì, e ho visto lei tra le lenzuola, la barella, il materasso e tutto quanto che praticamente galleggiava in un fiume di sangue che manco la scena dell'ascensore di Shining.

In mezzo al casino degli infermieri e dei dottori che rianimavano mi sono fatto spazio, e ho dato il cambio al massaggio cardiaco.

«È stata fatta l'adrenalina?» ho chiesto. «Quant'è che è in arresto?»

E poi, parlando con la persona alla testa che ventilava.

«Facciamo 30 compressioni, e due insufflazioni» come se davvero servisse che glielo spiegassi io.

A un certo punto ho guardato in basso, e ho visto le mie mani sul torace di quella donna che stava immobile, la bocca aperta e gli occhi semichiusi. C'era sangue ovunque: avevo i guanti sporchi, le lenzuola erano nere per quanto erano impregnate, e ogni tanto qualcosa mi schizzava addosso e sul camice che più tardi - piuttosto che pensare di portarlo a casa e provare a lavarlo - ho direttamente buttato nel secchio, e tanti saluti.

Dopo un po', il cuore della vecchina è ripartito. E io l'ho lasciata lì con gli infermieri e i dottori più esperti, che andavano dati i farmaci, i liquidi e quello che serviva e poi - di corsa - in sala operatoria, che bisognava fermare l'emorragia.

L'ho lasciata pensando che in genere dopo un arresto cardiaco, e in quelle condizioni... ma insomma: io, la mia parte, l'avevo fatta.

Poco più tardi, parliamo di minuti, da quella donna piccola piccola siamo passati a un omone di cento e rotti kg.

Settant'anni, non ha mai avuto problemi di salute. È entrato in pronto soccorso che era blu cadaverico senza nemmeno passare dal triage: direttamente in codice rosso.

Non respirava. O quasi: non si capiva più di tanto. Gli ho messo il saturimetro su un dito, e ho visto che segnava 79%.

Per chi non lo sapesse, il valore massimo della saturazione di ossigeno nel sangue è 100%. 95-96% è normale. 90% ci puoi ancora sta', che chi s'accontenta gode... ma 79% è proprio una merda.

79% è la saturazione di ossigeno nel sangue dei pesci, o delle rane. O non lo so di che animale che non respira proprio, o dei batteri che vanno a metano. Ma insomma, per l'essere umano stiamo lì lì che più che l'anestesista fai quasi prima a chiamare il prete.

All'emogas aveva un Ph che sarà stato tipo 6,9. Che adesso non sto qui a spiegarvi pure questo, ma vi giuro che era quasi più brutto della saturazione.

Insomma abbiamo messo l'ossigeno, e l'anestesista stava lì a farlo respirare col va e vieni come nei film dei dottori fighi, e piano piano la saturazione è risalita: prima 80, 85, 90, poi lentamente 96, 97, 98...

All'elettrocardiogramma si è visto che aveva un nuovo infarto. È stata allertata l'emodinamica, e attorno al paziente è iniziata una corsa per prepare tutto e mandarlo il prima possibile a fare una coronarografia, quella cosa che ti infilano un tubo nel braccio o nella gamba e lo usano per sturarti le coronarie.

In tutto questo mi sono ritrovato a ventilare col va e vieni questo omone enorme grosso il doppio di me. Lo sguardo inchiodato su quel numeretto del saturimetro, che come scende un attimo pensi che stai facendo uno schifo mentre come sale di un punto ti senti il dottore più figo dell'universo... anche se poi scopri magari che potevi pure lasciar perdere, perché il paziente respirava da solo.

Far respirare qualcuno con il pallone e l'ossigeno è una cosa che ti stanca come se facessi i pesi, o come quando i miei amici fissati con la montagna mi raggirano e riescono a portarmi a fare trekking. Se fai l'anestesista è capace che capita qualche intervento dove devi farlo per ore e ore e ore di fila... e già questo da solo mi pare un ottimo motivo per scegliere una specializzazione diversa.

Alla fine l'omone è partito per la coronarografia, e ha lasciato il pronto soccorso. E anche per lui ero tutt'altro che ottimista: un infarto del genere, che arriva coi parametri vitali degli anfibi... insomma: non era una situazione facile.

Il resto della giornata non è stato meno impegnativo: ho visto pazienti, letto cartelle, fatto cose... ma - sinceramente - ora come ora, non me ne ricordo nemmeno mezza.

E rieccomi qua, sulle scale dell'ospedale, che avevo iniziato a scrivere che stavo uscendo.

Mi piace quando finisce un turno. La sensazione di aver fatto qualcosa che mi piaceva. Di aver provato a imparare, e di aver fatto il possibile per metterci del mio.

Della vecchina ho saputo che ha superato l'intervento, e che adesso stava ancora in sala operatoria con l'antidolorifico, le trasfusioni di sangue e il cuore che batteva ancora.

L'omone gigante ha fatto la coronarografia, ed è stato trasferito in terapia intensiva. E insomma: anche qui pare che il mio pessimismo totale sia stato fortunatamente malposto.

Dopo il racconto dell'altra volta con la gente che mi scriveva i commenti mentre piangeva (scusate!) o per mandarmi affanculo, avevo promesso un qualcosa con toni un po' diversi e un finale più allegro... ed ecco: non è sempre così, e anzi forse non succede quasi mai. Ma oggi - invece - per qualche caso miracoloso e fortuito, esco dall'ospedale che è tutto andato alla grande.

Faccio quel po' di strada che mi separa dalla macchina. Fuori dal pronto soccorso, quando è buio, c'è un silenzio che è totalmente l'opposto del casino che invece ci trovi all'interno. E io cammino in quel silenzio. Ho la mente libera, e mi sento bene.

Monto nell'auto. Metto in moto, accendo la radio, e vado via.

Simone

03/03/14

Dodici codici rossi.

Capito perché vogliono iscriversi tutti a medicina?!
In genere, quando ho il turno di pomeriggio arrivo un pochino dopo le 2. Così si trova parcheggio davanti all'ospedale, e non mi tocca girare mezz'ora e farmi 2 km a piedi.

Alle 2 e 30 circa sono comunque al mio posto in pronto soccorso. Entro, saluto il mio professore, mentre il medico del turno smontante mi guarda e mi fa:

«Meno male che ci stai pure tu».

Che tradotto potrebbe voler dire: "meno male che c'è uno bravo che ci dà una mano". Ma che tradotto un po' più pignolamente potrebbe anche significare: "meno male che c'è uno che ci dà una mano. Uno qualunque. Pure te".

Questo non lo sapremo mai. Comunque sia guardo lo scaffale dove tengono le cartelle dei pazienti, e mi prende un colpo: abbiamo ricoverato 12 codici rossi. Roba che già quando di codici rossi ce ne hai 5-6 sembra di stare in guerra sotto alle bombe all'uranio impoverito e al plasma termitico... ma 12 davvero è una roba che si avvicina più all'Apocalisse che a un giorno di tirocinio.

E nell'incomprensibile organizzazione dell'ospedale, se arrivano 12 codici rossi e ai codici rossi ci stai tu, te li devi seguire tutti da solo... mentre gli altri 10 mila dottori di tutti gli altri 10 mila reparti dell'ospedale possono pure giocare a farmville su facebook o andarsi a intimeggiare nei locali appositamente adibiti, come da comunicazione allegata.

Insomma ci sta il prof, ci stanno gli infermieri, e - per fortuna insomma meno male - ci sto pure io. E poi, basta.

«Iniziamo a prendere i parametri» mi fa il professore.

Iniziamo.

Misuro la pressione a questo, prendo la temperatura a quello.

«Fai l'emogas a uno» mi chiedono. «Porta l'ecografo per l'altro».

E io lì tra un paziente e l'altro, con l'ecografo e le siringhe e il cerotto adesivo e le garze e l'ovatta e il fonendoscopio e lo sfigmomanometro e tutto il resto, che paro il profugo della medicina d'urgenza.

«Bisogna rifare l'elettrocardiogramma. A lui i bicarbonati, a l'altro c'è da accompagnarlo alla TAC».

Avanti così, dietro a una serie infinita di patologie e complicazioni. Una, due, tre ore: vedi un paziente, e fai appena in tempo ad aggiornare la terapia o a mandarlo in reparto, che magari ti chiamano dal triage:

«Dispnea ingravescente in paziente cardiopatico: codice rosso!»

A quanto siamo arrivati? 13, 15, 20?! Comunque sia molli tutto, e corri dal paziente nuovo.

«Crepitii basali bilaterali» dico, ascoltando il torace. «Edemi declivi... ha uno scompenso cardiaco».

Il prof. annuisce, che ci ho preso, ma vabbe': questo era facile. Cardiopatico con la dispnea, che altro poteva avere? E infatti vi dirò un segreto: se andate in sala rossa e dite "scompenso cardiaco", non vi sbagliate mai. Ce l'hanno tutti, e fate sempre bella figura. Altro che quella minchiata del Lupus!

Comunque sia: diagnosi fatta. E ora di corsa i prelievi. Fai l'emogas. Metti il monitor. Chiedi l'RX, fai l'ecografia. Elettrocardiogramma. Temperatura corporea... e subito dopo già ne arriva un altro, mentre quelli che dovevi rivedere stanno ancora lì e non fai in tempo manco a guardarli.

In tutto questo, ogni - in media - trenta secondi - ti chiama qualcuno.

«I parenti del paziente X possono entrare?» chiedono dalla sala d'attesa.

Io mi stringo nelle spalle, che qui su queste cose non decido io.

«Chiedo al professore» dico. E lo vado a cercare.

«Mio padre può mangiare?» domanda una signora che accudisce un vecchietto. «Può alzarsi per andare in bagno? Può controllare la flebo che è finita? E quando va in reparto?»

E io «non lo so, non lo so, la flebo gliela chiudo io, in reparto ci va quando ci chiamano loro». Non ho le risposte a tutto... e anzi più che altro ho sempre un sacco paura di dire stronzate, per cui ci vado proprio coi piedi di piombo e la bocca serrata col rischio magari che qualcuno non capisce e si offende pure, del tipo che crede che lo sto ignorando.

Per dire, l'altra volta ho visto l'elettrocardiogramma e le analisi di uno che c'aveva un infarto, e quello:

«Ma che, dottore, ho l'infarto»?

E ora sì - io ero abbastanza convinto che l'infarto insomma ce l'avesse - ma vaglielo a dire se poi dopo invece ti sei sbagliato? E ho capito che la medicina difensiva fa schifo e tutto il resto. Però, prima di farmi denunciare, alla laurea vorrei per lo meno arrivarci.

In tutto questo, altre infinite domande e richieste di pazienti che - poracci - stanno lì da tutto il giorno, o da due giorni, o da una settimana, e alla fine insomma qualcosa ogni tanto la vorranno pure loro. Mangiare, spostarsi sulla barella, essere cambiati... o anche solo una voce cordiale per scambiare due chiacchiere con qualcuno.

Oppure - semplicemente - vogliono insultarti, spingerti, strapparsi tutti gli aghi e le flebo e cateteri, fuggire dall'ospedale, darti dell'idiota coglione incompetente o - più candidamente - picchiarti.

Io quando ho a che fare con quelli più aggressivi mi tolgo il cartellino e lo nascondo, che ho paura che ricordandosi il nome mi vengano a cercare per pugnalarmi o cose del genere. E detto da uno col nome scritto in alto su un blog... ma ora non venite a pugnalarmi pure voi: per favore.

Pure oggi, insomma, arriva uno che gli rode di stare in pronto soccorso e sfascia mezzo ospedale. Minaccia di malmenare tutti. Fa il gesto di dare una testata a un infermiere (nel senso che gli dà una testata, ma non lo prende) e quello - l'infermiere - dice tipo: "ah cavolo porca paletta!" tirandosi indietro appena in tempo.

Ed ecco che sbuca un paziente dal gruppo delle persone in attesa.

«Voi non dovete permettervi di insultare le persone!» grida, sdegnato dal comportamento del personale dell'ospedale inadatto a subire in silenzio violenti traumi facciali. «Guardate la sanità in che mani è finita!»

Capito? I pazienti ti picchiano e altri pazienti li difendono. Il che - tutto sommato - mi pare che abbia un suo certo senso logico.

La confusione sembra toccare i livelli massimi, e non pare possibile che le cose peggiorino ulteriormente. Ma - purtroppo - lo fanno. Altra emergenza, questa volta grave: una donna anziana in arresto cardiaco.

Corsa generale. Io massaggio, l'anestesista fa l'adrenalina, il prof tiene i tempi, uno specializzando ventila. Il monitor suona, gente che ci chiama perché non ha capito che - insomma - non è proprio la sua la situazione più urgente. Sento il paziente di prima - in un altro punto del reparto - che litiga di nuovo col personale gridando che vuole uccidere tutti... e io c'ho il terrore che irrompa dalla nostra parte e provi a farlo davvero.

Quando vedo E.R. o merdanatomy o quelle robe lì vedo certe scene e penso "ammazza che boiata, pare che capitano tutte a loro!". E invece, insomma, non c'è limite al peggio: la porta si apre, e il figlio della donna che stiamo rianimando si affaccia nella stanza.

«Non può stare qui!» gli grida un infermiere. «Aspetti fuori!»

 Ma lui resta lì, fermo. Scuote la testa.

«Voglio restare a vedere» dice, asciugandosi le lacrime col dorso della mano.

Una specie di gelo, misto a imbarazzo e senso di "adesso che cazzo famo?" si spande tra il personale sanitario attorno a me. Anche se loro sono più abituati a certe cose, è chiaro che la situazione è complicata per tutti.

Il professore si avvicina all'uomo accanto alla porta. Inizia a spiegargli cosa stiamo facendo, cerca di rincuorarlo un po'... se mai fosse possibile

«L'ho accudita da solo per anni» spiega il figlio, sempre in lacrime. «Ci devo essere anche ora, capite?»

Io non so davvero se capisco, ma insomma: sto lì che ancora comprimo il torace, alzo la testa per guardarlo meglio. Avrà praticamente la mia età, giusto qualcosa di più.

«Ok» gli faccio, prendendo un'iniziativa che tutto sommato non dovrei avere. «Se vuoi restare, resta. Per me va bene».

Lui fa il giro della sala, e si ferma alle mie spalle. E noi continuiamo la rianimazione seguendo la procedura con una tensione che crepa i muri della stanza. La donna in arresto cardiaco sotto di me. Il figlio alle mie spalle che sta lì, che piange, ma non ha paura di guardare.

Vorrei dirvi che è finita bene. Che è andata alla grande. Che il cuore è ripartito e siamo tornati a casa contenti e coi complimenti e gli applausi di tutti e che il giorno dopo mi ha chiamato il proprietario dell'ospedale dicendomi: "bravo, 30 e lode a medicina d'urgenza, domani entri subito in specializzazione!"

La verità è che le cose che scrivo qui, un pochino le cambio sempre, e che quello che leggete non è proprio quasi mai uguale uguale al 100% alla storia vera. Ma cose completamente inventate, sul blog, non ne ho scritte mai: di 30 e lode non ne ho mai presi. In un ospedale pubblico non lavorerò mai, e tutte le esperienze belle o brutte prima o poi finiscono come la laurea, come il pronto soccorso... e come la vita. E scusate questa retorica da fucilazione alle spalle, ma stavolta - davvero - mi è venuta così.

Arrivano le 8 di sera, e arriva il nostro cambio.

Esco dal pronto soccorso per andarmi a cambiare, e lungo il corridoio che separa i reparti incontro il ragazzo di poco prima, il figlio della donna che abbiamo provato a rianimare. Sta parlando con una dottoressa, e il suo aspetto... be': immaginatevelo da voi.

«Condoglianze» gli dico, avvicinandomi per salutarlo. «Mi dispiace»,

Lui mi guarda negli occhi.

«Grazie».

Detto questo mi prende la mano, e la stringe.

Forte.

Simone

29/11/13

User unfriendly.

Il nuovo computer che vi aiuterà nel lavoro.
Nel mio reparto ci stanno gli sfigmomanometri (i cosi per misurare la pressione) a parete.

Quelli tondi, belli grossi, attaccati al muro che così (nell'idea di chi se li è inventati) ce ne sta sempre uno accanto a ogni barella e soprattutto chi passa di lì non può fregarseli tanto facilmente.

Questo nell'idea. Nella pratica lo sfigmomanometro sta attaccato al muro, e il paziente a cui devi prendere la pressione sta nell'altra stanza a 28 metri 3 porte e 5 pareti più in là, e se non smonti quel coso dal suo supporto e non te lo porti appresso non ci arriverai mai.

Il fatto è che - non essendo pensati tanto per stare in giro quanto per stare appesi - dopo un po' che li smuovi e li appoggi per tutto il reparto gli sfigmomanometri a parete iniziano a funzionare male.

Intanto già di loro sono vecchi come il cucco. E quando stringi il manicotto e lo gonfi senti il tessuto a strappo ormai usurato che cede cede cede finché il manicotto non si apre con un prrrrrrrrrrrrrr che sfiata tutto e il paziente ti guarda con la faccia come per dire: ma guarda che dottore coglione che m'è capitato.

Poi a forza di prenderli e sbatterli c'è quello con la lancetta piegata che segna una pressione che devi più indovinare che leggere. Quello col vetro rotto che se lo afferri male muori e quello che perde aria e si sgonfia talmente in fretta che per leggere su che numero stavi quando hai sentito il primo battito devi rallentare il tempo tipo i videogiochi di Max Payne.

Poi c'è l'elettrocardiografo.

Arriva il paziente critico. Tu scopri il torace, metti gli elettrodi con quelle cacchio di ventose che non prendono mai e devi reggerle a mano, premi "stampa" sullo strumento con non si sa bene quale arto ti è rimasto libero e lui:

1) Si spegne se non avevi attaccato la spina.

2) Non stampa un bel tubo perché non si sa perché, forse è rotto.

3) Decide che comunque non stampa, perché SECONDO LUI hai messo gli elettrodi male.

4) Stampa ma s'inceppa la carta.

4) Stampa e non s'inceppa ma lo sportellino chiudeva male e sulla carta chimica non si legge una mazza.

Ora, io dico sempre: quando sarò medico io, comprerò un maledetto elettrocardiografo che se premo il tasto stampa E ZITTO, perché il dottore sono io e lo decido io come stanno gli elettrodi. Per lo sportellino che non si chiude, invece, ci metterò un pezzo di scotch.

Vabbe'. Presa la pressione, fatto l'ECG: mancano i prelievi.

Faccio il prelievo arterioso. E fin qui ok, che almeno il Padreterno non c'ha comprato le arterie facendo un appalto al ribasso, e quando le buchi - in genere - il sangue ancora esce. Vado alla macchina che analizza i prelievi. Infilo il cappuccetto nella siringa, il cappuccetto aspira un po' di sangue e... e... "campione non rilevato". O rivelato. O come accidenti si scrive.

"Inizio test di qualità. Il test di qualità termina tra... 3 minuti".

Cioè capito? Come tocchi il tasto sbagliato, quell'accrocco malvagio prende e si mette 3 minuti a farsi i cavoli suoi, e tu fermo lì con la siringa in mano ad aspettare che abbia finito.

Ma se c'è un'emergenza? Se chissene frega del controllo di qualità, intanto dimmi almeno quello che mi puoi dire? Dove si interrompe 'sta cosa? Non c'è semplicemente un tasto che posso premere?

No. Puoi solo aspettare.

E poi, l'altro giorno, durante il controllo è apparso questo:

"Microgoagulo rivlelvato. Nuovo test in corso. Il nuovo test termina tra... 9 minuti".

In 9 minuti il prelievo arterioso altro che microgoaguli, si macrocoagula tutto! E mo' spiegalo tu al paziente che devi ribucarlo, perché la macchina dell'emogas ci odia.

E una volta poi fatti i vari esami, a uno piacerebbe - che ne so - aprire il computer e vedere la TAC o le lastre che magari sono state fatte... anche solo - così - per imparare qualcosa.

Solo che c'è la cazzo di privacy, e per aprire il computer ci vuole la password che a te non te la danno per via della privacy, e ce l'ha solo il professore. Allora insegui il professore per farti mettere la password, e dopo mezz'ora un'ora due ore diciamo che ha un minuto libero tra un paziente e l'altro, e ti dà retta.

Solo che il programma per vedere le immagini è mezzo buggato e ogni tanto prende e s'impalla, e il professore deve metterti la password di nuovo... ma solo dopo che hai chiuso tutti i processi con ctrl+alt+canc o - una volta sul 3 - scoprire che s'è impallato veramente di brutto e devi per forza spegnere il PC e riavviare tutto da capo. 

Sperando, ovviamente, che si riaccenda.

Simone

25/03/13

La notte in pronto soccorso.

Il policlinico fa lo stesso effetto. Solo diverso.
La notte al pronto soccorso ricorda le storie di certi scrittori che una volta avrei voluto imitare, costellate di personaggi dai toni intensi che appaiono e scompaiono in ambienti bui e poco accennati.

Un po' tipo un collage tra Twin Peaks ed Eyes wide shut, senza ahimé tutto quel sesso ma - grazie a Dio che se no avevo già cambiato reparto - molto, ma molto ma davvero molto meno noiosi.

Tra i tanti pazienti di uno dei tanti turni ci sta Luisa, che ha preso una vagonata di farmaci per non ho capito che terapia, e di colpo gli si è gonfiata la lingua e sta lì con la flebo nel braccio e la paura che se si gonfia un altro po' non riesce più a respirare e muore.

«Qui abbiamo anche gli anestesisti e tutto l'occorrente» le spiego, vedendola che si tasta il collo. «Vedrà che non succede niente, ma pure se succede è tutto sotto controllo».

Vedo che mi sorride: l'avrò rassicurata? Un po', certo, penso di sì. Ma non è una di quelle situazioni in cui ti rassicuri più di tanto. Credo.

Lascio Luisa e dal triage - l'ingresso del pronto soccorso - ci chiamano per Paolo. Era a lavoro, quando l'hanno trovato svenuto. E ha la febbre, e non riesce a stare in piedi, e ha un forte dolore al collo per cui l'infermiere s'è subito spaventato e gli ha messo una mascherina.

Il professore gli solleva le gambe e porta le ginocchia al petto. Manovra di Lasegue si chiama. O Laségue. Làsegue. Lasegùe o anche forse ma non credo Laseguè. Al concorso per entrare in specializzazione dove si mette l'accento te lo chiedono di sicuro, per cui toccherà saperlo... ma intanto piegare le gambe a Paolo non fa male: la manovra è negativa e - se ci dice bene - nessuno di noi si è beccato la meningite. Almeno non questa volta.

Paolo va in un altro reparto, e noi torniamo dentro. Le luci al neon dei corridoi sparano che ti accecano gli occhi, mentre fuori dall'ospedale è buio e le strade si svuotano. Certe volte pare che ci sei soltanto tu, i malati e nient'altro, quando fai i turni di notte. Una specie di delirio psicotico causato dall'eccitazione, dal sonno, e credo anche dai vapori di qualche disinfettante: quando facevo le notti in ambulanza, provavo la stessa cosa identica uguale.

Sono le undici, e arriva Carla. Ha un dolore al petto fortissimo. Si agita, non è lucida, a parlare fa fatica. All'elettrocardiogramma è abbastanza evidente che c'è un infarto. Un infarto di quelli grossi. Un infartone. Uno di quelli che ci rimetti le penne.

In due minuti la riempiono di farmaci per il cuore, per il dolore, per l'ansia... per tutto.

Che nei film i dottori devono fare un po' più di scena, e se un paziente gli va in arresto cardiaco fanno tutti l'espressione da panico che non se l'aspettavano e iniziano a correre per la stanza a gridare e a chiamare la gente e a tirare giù le Madonne. La realtà invece è che - i dottori veri - come sta Carla lo sanno già benissimo, e stanno lì pronti col defibrillatore e a ripassare le manovre d'urgenza.

La sala è pronta. Visto che sta dalla parte più opposta lontanissima in culo alla luna dell'ospedale, organizziamo una specie di gita barra trasloco dal pronto soccorso a cardiologia. Io, gli altri studenti, gli specializzandi, il professore, i barellieri e l'anestesista di turno.

Attraversiamo dei posti dove di giorno ci sta una folla che manco ve lo devo spiegare, che se avete mai fatto una visita medica lo sapete meglio di me la fila che c'era e tutto il bordello per trovare la stanza giusta nel reparto giusto nell'edificio giusto. Di notte è un deserto oscuro fatto di corridoi, finestre e ombre scolpite da qualche neon e dalle luci smorte dei rivenditori automatici.

Insomma alla fine Carla fa questa coronarografia. Che sarebbe che ti infilano un tubo dentro alle arterie del cuore, trovano dov'è che non passa più il sangue e te le sturano. Tanto per farvi una spiegazione dettagliata da specialista in cardiologia. E vorrei dirvi che alla fine è successo chissà cosa di tremendamente fichissimo da raddoppiare i lettori del blog, ma invece niente: hanno sturato le coronarie di Carla, l'hanno portata in osservazione, e da quanto ho saputo nei giorni seguenti stava pure bene. E se questo fosse un medical drama, davvero: che palle.

Tornato in reparto mi affaccio da Luisa, e pare che si stia sgonfiando. Nella stanza con lei invece ci sta il signor Armando: 70 anni passati, un grosso problema neurologico di quelli importanti. Sta in barella che non capisce più nemmeno dov'è, e si agita e si lamenta con quel poco di forza che ha.

«Si trova in ospedale» gli spiego, convinto che però nemmeno mi senta. «Non si preoccupi, pensiamo a tutto noi».

Lui guarda il vuoto attraverso di me. Prova a dire qualcosa ma sono solo rumori. Gli misuro la pressione e trovo che ce l'ha bella alta. Avviso il professore, e gli cambiano la terapia e gli danno pure qualcosa che lo calmi un po' e che così magari riesce pure a dormire.

Non che si possa fare molto, tutto sommato: perché alla fine con la medicina qualcuno un po' lo aiuti. Qualcuno lo aiuti magari un po' meno, ma per qualcun altro non puoi proprio fare un bel cazzo di niente.

«Bravo, te stai a imparà» mi dice il professore così, a sorpresa, a un certo punto che non me l'aspettavo.

E io lì sul momento ci ho scherzato anche sopra: che il prof. alla fine è gentile con tutti e sono sicuro che mi trattava bene pure se ero impedito e il giorno dopo dall'università mi cacciavano a pedate. Non ho capito nemmeno che cosa potrebbe aver notato, di preciso, in quel momento: vagavo per il reparto e facevo cose con animo perplesso, come faccio sempre quando sono lì.

Poi adesso però ho scritto queste righe, e non lo so: ho notato anch'io un po' un cambiamento. Un'atmosfera leggermente diversa dai racconti che faccio di solito. Come se stessi facendo sempre le stesse cose, ma con maggiore consapevolezza.

Oppure - chi lo sa - probabilmente mi sarò anche un po' fatto suggestionare, tutto qui. Magari è soltanto un po' un'impressione.

Simone

07/02/13

Il giorno dell'esame.

Parte dell'encefalo che genera ansia durante gli esami.
La sveglia la mattina presto il giorno dell'esame è già di per sé una cosa troppo terribile. Che devi svegliarti ma c'hai troppo sonno, e devi alzarti per forza ma di andare all'esame proprio non ti andrebbe di farlo manco morto ammazzato.

Il giorno dell'esame mi piacerebbe svegliarmi che invece è già il giorno dopo e l'esame è finito, e invece niente: sto ancora nel mio bel lettone che fuori è freddissimo con un sonno che levati, e so con certezza che da lì in poi sarà una lunga - indimenticabile - giornata di merda.

È inverno pieno, e affacciandomi alla finestra vedo che piove pure e insomma - oddio - la morte.

Guido nel traffico con tutto il casino della mattina e della pioggia, e a ogni semaforo provo a riguardare qualcosa su quei cavolo di fogli strasottilineati e scarabocchiati che avrò riletto un milione di volte, ma che tanto non mi ricorderò mai bene come si deve perché non lo so ma al mio cervello proprio non va: è impossibile.

Parcheggio e via con l'ombrello e il freddo e la pioggia e l'infinita serie di fanculo giornata di merda chimmelaffatto fare che continuo a ripetermi da quel giorno del test di ammissione di non so più quanti anni fa.

Arrivo al posto dell'esame e ci stanno un po' di altri studenti, tutti stressati e impanicati e con centomila libri e foglietti e paranoie più o meno inespresse come me. I prof non ci sono e l'aula è chiusa e finisce che stiamo in piedi un'ora prima che arrivi qualcuno. E che gran rottura di palle.

Arrivano i professori: ci stanno il clinico e l'assistente e il chirurgo e poi forse viene il tizio che ha fatto quella lezione ma speriamo di no, che di quella lezione lì nessuno sa un cazzo. Dicono che l'assistente tiene le persone un'ora per uno e speriamo che non chiama me. Il chirurgo invece è quello buono, e speriamo che non arriva pure quello stronzo che boccia tutti che se no siamo fottuti.

Iniziano a chiamare. I nomi scorrono piano piano e il tempo insieme a loro mentre io esco a fumare, poi rientro, poi riesco a bere qualcosa, poi entro di nuovo e poi esco ed entro ed esco di nuovo e insomma seduto fermo non ci so stare. Ogni tanto tra bisbiglii e cose mezze sentite e mezze no esce fuori qualche domanda che non sapeva nessuno ed è un panico di foglietti e cellulari con wikipedie e google vari. Poi magari lo sapevi e non hai capito, oppure hai capito e non lo sapevi uguale... e comunque in ogni caso ormai stiamo qui, vada come deve andare e sticazzi.

Chiamano qualcuno che è poco prima di me. Saranno passate tre ore, ma ormai quasi ci siamo. Butto uno sguardo ai soliti appunti per un ripasso in extremis, ma mi sembrano cose che non ho mai nemmeno sentito nominare e d'improvviso non ricordo più nulla. Se mi mostrassero la mia carta di identità, direi: e questo, chi caspita è?!

Tocca a me, primo orale col primo professore. Vado bene, non benino ma nemmeno benissimo. Gli ho detto un po' di cazzate ma vabbe', poteva andare peggio. Ci possiamo stare.

Torno ad aspettare la seconda interrogazione, e sto a metà tra lo stress del sotto esame e la consapevolezza che ormai è quasi andata. Non so se c'è un nome per questa sensazione di quando un pezzo di esame comunque te lo sei tolto ma non si sa ancora come andrà l'altro. Un mix di ansia e di questa sensazione che forse t'ha detto bene e ce l'hai quasi fatta, quasi. Mi azzarderei a definirlo come un vago ottimismo.

Secondo orale. Qui comincio che è già una schifezza, ma un po' mi riprendo e un po' no e insomma a singhiozzo, con alti e bassi. Mi chiedono una cosa che sapevo fino a 30 secondi prima ma che adesso proprio non m'esce, fanculo a me e alla mia memoria del cavolo ma che cacchio lo sapevo... e invece niente. Per un attimo penso sta a vede' adesso se questo per 'sta cosa mi boccia, però non mi boccia ma insomma manco c'è tutto questo entusiasmo e l'interrogazione finisce così, che so' andato un po' de' merda, diciamo la verità.

Ma la sensazione più bella non è quando ti dicono il voto, o quando torni a casa o quando butti finalmente al cesso quegli appunti maledetti del cavolo. Il bello è quando vedi che ti mettono un voto e che era l'ultimo orale, che vuol dire che l'esame ormai è finito e - vada come vada - sei passato.

Ed è vero che c'è chi alla media ci tiene e tutte quelle storie per la specializzazione e concorsi vari che non vincerò mai, ma io non ho mai rifiutato un voto in vita mia e i giudizi per me non sono dati in trentesimi ma in un semplicissimo passato/non passato facente parte di un insieme booleano.

Passo dal terzo professore, ma questo fa solo la media tra i due di prima. Un voto è un po' meglio, uno è un po' peggio, mi regalano pure qualcosa e tiè: viene fuori un votone. È una settimana che prego che non mi boccino, e poi esce un voto che manco mi meritavo ma nemmeno se proprio studiavo un altro mese ed ero uno normale, di quelli in grado di memorizzare le cose.

Ma c'est la vie: è l'università, e così sono gli esami: una gran fatica di mesi che poi ti giochi tutta in mezza giornata di stress ed eventi assolutamente casuali. Ma quando arriva qualcuno che si vanta di una sua bella laurea cum laude che lui è tanto figo e tanto bravo e capisce tutto lui, pensate sempre che - magari - ha semplicemente avuto un'interminabile serie di botte di culo.

È finita. Verbalizzo, ringrazio, saluto, auguro in bocca al lupo a qualche amico che aspetta ancora nella dimensione del terrore dove vivono gli studenti esaminandi, e me ne vado.

Fuori non piove più. Caffé, sigaretta, finalmente mi rilasso un po'. E un altro esame è andato.

Simone

19/12/12

Quando sono stato male.

Malato dell'800: l'iPad aveva una connessione lentissima.
La sera prima la passo - come tutte le sere degli ultimi tempi - a cercare dettagli relativi alla mia operazione su Internet.

Vengono fuori certi filmati che ti cadono tutti i capelli. Siti che raccolgono opinioni contrarie e angoscianti. Esperienze di gente che si lamenta di sequele, inesattezze, dolori, traumi, effetti collaterali e chi più ne ha più ne metta.

Mi ripeto che su Internet ci vanno solo quelli che hanno da lamentarsi. Gli insoddisfatti e gli insicuri. Su Internet ci scrivono i coglioni come me o chi ha voglia di prendere per il culo la gente o chi tanto non sarà contento mai. Questa consapevolezza mi rassicura un po'. Un pochino. Ma la notte comunque dormo poco.

Sono in clinica alle 9 della mattina successiva. Qualche formalità burocratica, poi mi accompagnano in camera e mi danno un letto.

Verso le 10 iniziano a portare i pazienti in sala operatoria. Le barelle passano per il corridoio fino all'ascensore, e poi di nuovo dall'ascensore fino alle stanze. Spero ogni volta che tocchi a me, ma invece tocca sempre a qualcun altro mentre quel corridoio l'imparo a memoria ripercorrendolo una, dieci, cento volte avanti e indietro.

Le ore non passano mai. Ogni minuto che aspetto è un minuto in più di convalescenza che mi toccherà scontare dopo. Non si può bere, non si può mangiare, non ci si può nemmeno accendere una sigaretta. Sei come in una specie di limbo dove non succede e non puoi fare nulla a parte passeggiare o farti venire sonno davanti ai programmi della mattina in TV.

Verso le 2 un'infermiera entra in stanza e mi dice che è il mio turno. Mi affretto a indossare quel camice ridicolo che ti lascia tutto scoperto come ti muovi un attimo di troppo. Poi entro nel letto e mi infilo sotto alle coperte.

Si parte: mia mamma mi saluta accarezzandomi sulla fronte, mentre mi spingono verso l'ascensore. Le luci del corridoio passano sopra di me, mentre a destra e a sinistra i numeri delle varie stanze scorrono all'indietro in una specie di conto alla rovescia.

Saliamo con l'ascensore, e mi lasciano in una specie di sala d'attesa. Sento i dottori che parlano, qualcuno telefona e altri sono indaffarati a spostare barelle o a discutere di interventi o di chissà che cosa. Mi tiro su le coperte fino al collo, perché fa un freddo della Madonna.

«Io sono l'anestesista» un signore si accosta al letto e mi dà la mano. Poi mi attacca degli elettrodi per il monitor dell'elettrocardiogramma e se ne va.

Arriva una seconda barella con sopra una ragazzina sui 14 anni. Ha la faccia di una che la madre gli ha appena buttato al cesso tutti i trucchi comprati di nascosto e il ragazzo l'ha mollata e le sue amiche non la cercano più e la sua vita è finita e che suo padre gli ha detto che vuole che studi Ingegneria. Vorrei provare a tranquillizzarla un po', ma due infermiere aprono un separé tra noi due e non riesco più a vederla.

Passeranno un paio di minuti, poi l'anestesista torna al mio letto e mi spinge verso la sala operatoria vera e propria.

Mi fanno scivolare su un lettino più piccolo, e in un attimo sono circondato da persone con tute azzurre, verdi, blu, rosa... ma quanti sono? Sembra una specie di film del terrore, ci manca solo la musica col teremin o qualche scala di tastiera superveloce per essere davvero tale e quale.

Qualcuno mi allenta il camice. Qualcun altro mi sposta tirandomi come se fossi un sacco. Mi posizionano un saturimetro su un dito, mentre nell'altra mano mi infilano un ago cannula e sento un male cane che davvero non me l'aspettavo.

«Adesso rilassati mentre il farmaco fa effetto» mi dice l'anestesista. «Così ti addormenti».

«Ma non dovevo fare prima la spinale?» chiedo.

Lo so che sembro l'apoteosi del rompicoglioni all'ennesima potenza, che non si sta buono manco con 10 persone intorno armati di aghi e lame taglienti. Però pensavo di aver capito diversamente.

«No, ti addormentiamo. Niente spinale».

A quel punto io specifico chiaramente il nome del mio intervento, assicurandomi che comunque non è che per caso ci fosse stato uno sbaglio. Lo so: ho visto veramente troppi telefilm coi dottori del cazzo, e comunque mi addormento senza nemmeno sentire la risposta.

Dormo che è una favola. Sogno qualcosa anche, ma non ricordo cosa. Mi pare di aver dormito per ore, come quando sei proprio stremato e dormi che te lo gusti che non ti pare vero... e poi però a un certo punto ti svegliano che non volevi, e hai ancora troppo sonno.

«Abbiamo finito» il chirurgo mi sveglia con una carezza. E poi sparisce, o mi riaddormento io. Non lo so, non ci sto capendo un cazzo.

La prima cosa che riesco a razionalizzare, è che ho un dolore terribile. Una roba che pensi solo che non è possibile che ti faccia davvero così male: capita che uno prende una botta col mignolo su uno spigolo o una storta giocando a calcetto e allora dice che s'è fatto male e sta lì che si lamenta e pare chissà che cosa... ecco, avete presente? Be', invece no: è una cosa troppo peggio. È un dolore assurdo come non l'hai sentito mai, che sta lì e che non passa e per quanto ti agiti e ti lamenti mi sa che a calcetto non ci rigiochi comunque per un bel po'.

«Come va?» l'anestesista mi sta spingendo di nuovo nella sala d'attesa. «L'intervento è andato benissimo».

«Mi fa male. Ho un dolore importante».

Questa espressione del dolore importante non me l'ero manco preparata. Un termine entrato dentro in qualche modo da qualche reparto, e rispuntato fuori dal mio subconscio che anche in un momento del genere non voleva bruciarsi l'occasione di spararsi le pose da studente di medicina secchione sfigato. Il subconscio - non per niente - sta sulle palle un po' a tutti.

L'anestesista indica una pallina di plastica che mi hanno appiccicato al braccio.

«Hai già l'antidolorifoco, adesso ti diamo qualcos'altro».

Quello che ricordo dopo sono una serie di scene tra la sala operatoria e la mia stanza, perché lo spostamento ci sarà stato ma non è che mi ricordo tanto che cosa è successo. So solo che a un certo punto stavo con le flebo, gli antidolorifici e tutta la droga del mondo, con mia mamma da una parte che pregava e io che ogni tre secondi facevo un grugnito come uno che lo sgozzano e mi giravo e rigiravo per trovare una posizione nella quale mi sentissi un po' meglio, ma che tanto non c'era.

E poi quella sete. Come se avessi masticato delle palline di sale, mentre correvo di corsa al Circo Massimo in pieno Agosto con addosso la tuta da sci. Sugli effetti collaterali dei farmaci ci scrivono cose tipo: neutropenia, neurite periferica, al limite diarrea se proprio uno è fortunato. Non ci scrivono mai: ti viene una sete che manco a li cani, questo no. E vorrei tanto sapere perché.

Ma non mi lasciano bere: non si può, è vietato come qualunque altra cosa lontanamente piacevole all'interno di ospedali, cliniche e areoporti, e comunque ho già una flebo di fisiologica attaccata alla vena. Vedo il tubicino che mi entra nella mano: ripenso a quando spiego ai pazienti che come idratazione basta quella, e che di bere non hanno realmente bisogno... e poi mi mando affanculo da solo.

Passa un'ora, e sto giusto appena un attimino meglio.

Passano due ore, e va meglio. Riesco anche a scambiare qualche parola con mia madre che non prega più, e a scherzarci sopra.

Dopo tre ore gli antidolorifici hanno funzionato, e mi fa ancora male tutto ma è un male che tutto sommato non è più niente di che.

Arriva l'ora di cena, e arrivano una specie di brodino con dentro il niente, e quella che a un esame autoptico potrebbe essere una mela frullata. A portarmi il vassoio è una signora piccolina, anzianotta, non indossa un camice ma una sorta di palandrana che le copre il vestito solo sul davanti e la fa sembrare una cameriera. E io ho tanta di quella fame che vorrei abbracciarla e chiederle di sposarmi e portarmi la pastina e la mela per tutto il resto della nostra vita: noi due, soli e insieme per sempre.

Tirarsi su per mangiare è un'impresa, ma ho un sacco di tempo. Il brodino mi leva quell'arsura demoniaca, e già mi sento rinato. La mela frullata è dolce, e dopo quelle due ore interminabili che sono passate è una sensazione così bella che mi scendono quasi le lacrime.

«Era buonissima» dico alla signora di prima, tornata a recuperare il vassoio. «La cosa più buona che abbia mai mangiato».

Lei si mette a ridere, e scuote un po' la testa come a dire che invece no: non è buona per niente.

«Si vede che avevi proprio fame» dice, prima di andarsene.

La notte dormo mezz'ora ogni ora. Mi addormento e mi sveglio. Mi sveglio e mi riaddormento. A un certo punto - e non so come - il catetere s'intreccia con la flebo, e facendo un movimento col braccio gli do uno strattone con tutta la forza che ho. Ma guardiamone il lato positivo: ogni volta che capiteranno discussioni sugli aneddoti dolorosi per decidere a chi è capitato di farsi più male nel corso della vita, vincerò sempre e sicuramente io.

Al mattino mi visitano di nuovo, e quando mi levano il catatere esclamo il "ma porca troia!" più profondamente sentito della mia esistenza. Poi verso le dieci passa l'infermiera, mi chiede se ho fatto pipì e io niente: non mi scappa.

Alle undici passa di nuovo, e io di nuovo nulla: non la devo fare.

Verso mezzogiorno mi scappa un pochino, ma non riesco a farla.

All'una sono io a cercare l'infermiera perché mi scappa troppo, ma non ci riesco. Lei mi dice che non fa niente, e di riprovare più tardi.

Alle due me la sto facendo sotto ma niente: ci provo e ci riprovo, ma la sensazione è come di dover pisciare attraverso il granito e mi viene da piangere solo al pensiero che mi rimettano il catetere, e che poi - cosa peggiore di tutte - me lo tolgano di nuovo.

Alle due e mezza viene a trovarmi mio fratello. Tempo 3 minuti e mi fa incazzare di brutto, scatenando così anche il miracolo. Esco dal bagno entusiasta per avvisare le infermiere e i medici e gli operatori sanitari. Gli altri pazienti, gli operai che vedo dalla finestra dall'altra parte della strada, tutti quanti devono essere informati che ce l'ho fatta e partecipare ai festeggiamenti: devono saperlo tutti!

E da lì in poi è stata tutta in discesa. Medicazioni, farmaci, visite col chirurgo, dolori da tenere a bada con altre medicine... ma il brutto è stato davvero solo in quelle due ore dopo l'anestesia, un po' la notte e fino alla mattinata successiva, quando pareva impossibile anche l'operazione più banale.

A ripensarci, adesso che queste righe sono poco più di un racconto, penso di poter dire di essere stato male. Poco male - tutto considerato - e per poco tempo, ma è stato così. Diciamo che penso di aver avuto un piccolissimo assaggio di cosa vuol dire dipendere totalmente da qualcun altro, perché da solo non ce la puoi proprio fare. Ho capito che anche un minimo di gentilezza in più può cambiare tanto di come vivi una situazione.

Ho capito che quando qualcuno sta male non è come al cinema o nei film, che pare quasi una cosa figa che poi alla fine sono tutti felici o - male che vada - alla fine muore e non ci si pensa più: c'è un livello di stare male che arriva ad annientare le persone. Le strappa via dal mondo e le porta in una dimensione dove non riescono a interagire con nient'altro se non la propria malattia e i propri bisogni più basilari.

Ogni volta che una persona sta male e non riusciamo ad aiutarla, ogni volta che qualcuno soffre e viene lasciato solo, e ogni volta che guardiamo al dolore degli altri con indifferenza, è una tragedia.

E non bisogna essere medici, o ingegneri, o laureati in chissà che altro per capirlo, per sdegnarsi, per voler fare qualcosa, per voler aiutare e curare. Bisogna semplicemente essere umani.

Simone

23/11/12

I colleghi antipatici.

Studente saccente con l'Harrison incorporato.



Su Facebook, capita che alcuni compagni di corso si lamentino - in modo generico - di come certi studenti siano un branco di palloni gonfiati che si danno un sacco di arie, e che non sono disposti ad aiutare nessuno: né i loro pazienti, né tanto meno i colleghi, che sono visti più come futuri concorrenti che altro.

C'è da stupirsi? Direi di no: il giorno che entri a Medicina lo fai dopo aver passato un test considerato la concezione più elevata dell'umano ingegno dopo lo sbarco sulla luna e la serie TV del Trono di spade. E nonostante il significato prognostico nullo di tale test è già plausibile che un adolescente - magari già un po' montato di suo - solo per averlo superato inizi a credersi il nuovo luminare della scienza moderna.

Poi Medicina è un po' strana. Cioè a Ingegneria per fare un esempio ti insegnavano che dovevi stare zitto e fare bene il tuo lavoro, che chi stava sopra di te (professori, committente, geometri e periti industriali, il lattaio, l'omino che controlla il contatore del gas... insomma chiunque) poteva cazziarti e insultarti quanto gli pareva e tu dovevi fare pippa.

Cioè una buona parte del lavoro dell'ingegnere consiste nel fare la cosa necessaria in mezzo a un branco di coglioni che ti gridano contro e cercano di sabotarti e che poi a lavoro ultimato ti tratteranno anche male, mentre a Medicina invece impari a restare sempre un tantino distaccato: i pazienti li prendi, li spogli, gli metti le mani addosso, decidi cosa li affligge, decidi la terapia e se poco poco hanno qualcosa da ridire significa che sono dei gran rompicoglioni, mentre tra te e loro c'è sempre un camice bianco che - in un certo senso - vi separa.

Che poi la realtà non è questa: ci sono tanti dottori bravissimi e umilissimi che con i pazienti sono degli angeli scesi sulla terra. Ho visto professori fare da cavie per i propri alunni, o specialisti con gli occhi lucidi per una brutta notizia da dare a un paziente. Però da studenti - e per certi studenti direi - l'idea che sei un po' stocazzo può piano piano prendere piede, e a quel punto ritornare sui propri passi è davvero difficile.

Capita poi che questo atteggiamento sia un po' orizzontale, all'interno dell'ospedale, e che non coinvolga cioè solo i dottori e gli studenti di medicina:

Per dire: ho conosciuto iscritti a varie professioni sanitarie che - dopo due mesi di reparto - non ti fanno un favore manco morti perché una volta un dottore gli ha risposto male e adesso ce l'hanno con tutti, oppure perché magari c'è qualche documento che spiega cosa devono o non devono fare e loro si rifiutano di muovere un dito più del dovuto.

Cioè cazzo io a 37 anni mi prendo le pressioni di tutti i malati, provo (sigh) a fare i prelievi, vado nell'altro reparto a sviluppare gli emogas (da noi non c'è la maccina) faccio gli ECG, sistemo le cartelle se c'è da farlo, seguo i professori da tutte le parti in caso gli serva qualcosa... ma che cavolo sto lì da 1 mese e quelli mi insegnano cose che da altre parti semplicemente mi sognavo. Ci sta che provo almeno un po' a prendermi anche qualche rottura di palle e rendermi utile, no?

Invece arrivano questi ragazzini di 12 anni col camicetto appena comprato, il professore più bravo dell'ospedale con 2 pazienti instabili da seguire gli chiede se per favore gli fanno una cosa e quelli "no, non è compito nostro".

Oppure vai nell'altro reparto, trovi una cosa tutta sporca di sangue (!!!) invece di farti gli affari tuoi che tanto le malattie se le prendono loro dici a uno "scusa, qua è tutto sporco di sangue non so magari gli diamo una passata col disinfettante?" con tutta la cortese sottomissione che ho appreso nel rapporto con i geometri del Comune.

E quello "chi sporca pulisce, io non faccio il cameriere, il disinfettante sta lì e puoi usarlo da solo".

Che se andiamo a vedere io lì sono solo uno studente, per cui tutto sommato non c'è nulla che sia veramente compito mio e se lo faccio lo faccio altrimenti amen: ci sarà qualcun altro che deve effettivamente occuparsene lui.

Solo che il non fare è l'anticamera della mediocrità. Prima non fai perché non vuoi, poi dopo un po' perché non sei proprio capace, e alla fine nemmeno te lo chiedono più perché nessuno si aspetta una risposta positiva. E lo stesso penso che valga per i futuri medici arroganti, che finché non escono dal tunnel mentale di sapere tutto loro è difficile che arrivino poi sul serio a fare chissà che cosa.

Che se sei scostante e antipatico e nessuno è felice di lavorare con te ci mettono poco a farti da parte. Hai le tue mansioni, entri e esci dai tuoi turni e dopo 30 anni stai ancora lì da solo in una sorta di reazione granulomatosa della società nei confronti degli stronzi.

La verità per fortuna è che di persone davvero antipatiche e scostanti, all'università come nella vita in generale, ne trovi giusto un 10-20%. Io con i miei colleghi mi sono trovato sempre benissimo, magari perché vendendo "da fuori" certe cose mi sembrano già più normali e me la prendo di meno... chi lo sa? Comunque insomma questa critica vale solo per una minoranza dei dottori o futuri tali, mentre il grosso generalmente si comporta in maniera per lo meno accettabile.

E poi trovi gente come questo signore sulla sessantina: lo vedo ogni tanto che porta le barelle, pulisce i malati, rifà i letti, chiacchiera coi parenti degli ammalati, porta i prelievi in laboratorio... fa un po' quello che serve al momento, insomma.

Sulla targhetta attaccata al camice c'è scritto che è un volontario di non so quale associazione che non mi ricordo, che c'ha un nome strano.

L'altro giorno c'era un paziente che stava malissimo: respirava male, acidosi, cirrotico, edemi da tutte le parti. Non si poteva muovere, non ce la faceva manco a stendere le gambe per quanto gli faceva troppo male tutto, e se ne stava accucciato nel letto tra tubi e fili di ogni genere, solo e dolorante.

Arrivata l'ora di cena il signore di cui parlavo si è messo lì, e con una pazienza che io non potrei avere lo ha aiutato a mangiare quello che poteva essere il suo ultimo pasto a questo mondo.

Credo che nel farlo non si sentisse 'sto grande dottore incompreso, e nemmeno il primo della classe o il salvatore dell'umanità. Sono anzi sinceramente convinto che - di certi discorsi - non gliene fregasse davvero un cazzo.

Simone

02/05/12

Ebook: Il gatto che cadde dal Sole.

Non ritrovavo manco la copertina e l'ho rubata a un altro sito.
Rendo nuovamente disponibile, in maniera del tutto gratuita, questo mio romanzo breve.

Il famigerato libro dei gatti che ricorderà chi mi conosceva come scrittore emergente (ma c'è rimasto qualcuno? :) non è complesso come Mozart di Atlantide. Non cerca atmosfere particolarmente inquietanti come Codice Aggiunto e non ha la tramona (vabbe') e l'ironia di Primo Mazzini.

Allo stesso tempo, credo che dei miei tanti lavori come scrittore questo sia il più rifinito e il più romanzo, nel senso classico del termine. E se dovessi scegliere un solo libro per presentarmi a qualcuno che non mi conosce, e andare il più possibile sul sicuro, probabilmente sceglierei questo.

Ve lo ripropongo nella stessa stesura non corretta e non riveduta che avevo messo online ormai cinque anni fa (non ho voglia di lavorare di nuovo su impaginazione e copertina, e non voglio aggiornare decine di link sparsi in rete) e in due formati PDF semplici semplici precedenti all'era degli ebook standardizzati per i diversi lettori:

Il romanzo in formato A4 (per un lettore con lo schermo grande come iPad o il Kindle per quelli ricchi, o per la stampa su carta).

Il romanzo in formato A5 (per un lettore con lo schermo piccolo, come Kindle da poveracci e aggeggi cinesi vari).

Se qualcuno vorrà realizzare un epub o altro può chiedermi i file originali e glieli farò avere. Io di queste cose non mi interesso più, e credo che i formati che ho utilizzato siano un buon compromesso tra la leggibilità sui vari lettori e il mantenimento di immagini e impaginazione corrette.

Concludo dicendo che - forse al pari solo di Primo Mazzini - tra tanti miei personaggi il piccolo Nessuno mi sta particolarmente a cuore, e credo che tutto sommato sia valsa la pena di fare il mio percorso di autore anche solo per dargli vita. E mi sarebbe piaciuto un giorno scriverne un seguito, o anche raccontare la storia di una sua sorella, scampata anche lei alla malvagità degli umani (i gatti parlano così, che vi posso fare?!) in quello sfortunato giorno d'estate.

Ma il destino come dicono gli scrittori fighi che vediamo in TV non vuole sempre quello che vogliamo noi, e se cinque anni fa mi immaginavo a quest'ora davanti alla tastiera a sfornare l'ennesimo best seller, mi rendo conto che la persona che sono adesso è talmente lontana e diversa da quel sogno che non so più nemmeno io se il non aver mai trovato un editore per i miei romanzi sia stata una disdetta o - semplicemente - un bivio che mi ha portato particolarmente in culo alla luna, come diciamo noi artisti altolocati.

Certo io avrei preferito il meglio di entrambe le cose: fare lo scrittore famoso e il medico, come Conan Doyle o qualche altro pazzo che di sicuro ce ne saranno a bizzeffe. Ma non è ancora detto niente, e al prossimo bivio che arriva magari mi ritroverò più vicino a entrambe le cose e con la sensazione di non essermele nemmeno sudate tanto come mi aspettavo di dover fare.

Oppure starò ancora da tutt'altra parte, a fare chissà che e chissà come. Però, insomma: speriamo che sto benedetto destino inizi anche un minimo a chiarirsi le idee... e che alla fine si dia una calmata.

Simone

03/04/11

Qualche segnalazione.

Aggiorno senza dire gran che, ma giusto per far "sparire" il pesce d'Aprile (mi sa che non ci siete cascati in molti) dell'altro giorno.

Vi segnalo insomma 2-3 cosette che mi hanno interessato o coinvolto in questi giorni:

Intanto una recensione di Io scrivo su Scrittura Informa, un sito dedicato alla scrittura e, ehm, alle recensioni di cose scritte. Tutto sommato il giudizio non mi pare troppo positivo... o forse non ci ho semplicemente capito una mazza io. Chi lo sa? Magari la prossima laurea mi servirebbe in lettere... ^^

Sempre su Scrittura Informa trovate anche la recensione del gatto che cadde dal sole, ma questa è di qualche annetto fa.

Come seconda cosa, vi linko un gioco in Flash che mi è parso molto interessante. Si tratta di The dream machine, un'avventura grafica fatta con i pupazzi di pongo e quelle robe lì, che si può giocare gratuitamente online.

Ancora, sono iniziate le pre-vendite del libro 365 racconti horror per un anno, una raccolta di (credo) 365 autori e racconti a tema (credo) horror alla quale ho partecipato pure io. Credo. Il racconto purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista potete leggerlo solo nel libro (stavolta niente di riciclato o già presente sul blog) che uscirà in libreria a Maggio, mentre per il momento lo trovate qui.

Infine vi ricordo che su Autori per il Giappone trovate anche un mio raccontino, che a me è piaciuto tanto anche se non ha né capo e né coda come le storie degli autori impegnati. Lo potete leggere andando direttamente seguendo questo indirizzo.

Poi dovrei dirvi qualcosa di nuovo anche su Medicina e quella storia di tornare all'università... ma magari la prossima volta ^^.

Simone

21/03/11

Autori per il Giappone.

Vi segnalo un'iniziativa che mi pare bene ideata e dalle ottime potenzialità: in sintesi, un sito/blog che raccoglie una serie di racconti di scrittori (noti o anche emergenti o solo amatoriali) allo scopo di raccogliere fondi per aiutare le vittime del sisma in Giappone.

Se non c'avete capito niente (ormai sono talmente arrugginito che quando scrivo non si capisce più una mazza) troverete una spiegazione più completa e dettagliata all'interno del sito in questione.

Poi, tra l'altro, ho partecipato anche io con un racconto di quelli che scrivi quando tanto non te ne frega niente di cosa penserà chi li legge... per cui c'è addirittura il rischio che sia venuto anche carino.

Insomma andate su 'sto cavolo di sito, cercate il mio racconto in mezzo agli altri centomila che sono online (io mi chiamo Simone Maria Navarra, proprio uguale al nome del blog), provate a lasciare qualche soldo in beneficienza, scrivete un vostro commento o qui o su quel sito lì o dove meglio credete e poi, se possibile, pubblicizzate il tutto spammando su Facebook e siti vari così da informare un po' in giro che si può ancora scrivere per un intento pratico e - se Dio vuole - anche utile.

Grazie!

Simone

10/03/11

Racconto - Primo Mazzini e l'invenzione al volo.

Primo Mazzini e l'invenzione al volo.

Il dottor Mazzini annuì leggermente, e poi batté le mani.
«Che problema c'é se il progetto per la fiera è andato distrutto?» disse. «Inventerò qualcosa al volo, e presenteremo quella. Quanto tempo abbiamo?»

La professoressa Bresson era pallida come uno strofinaccio coperto di farina, appena uscito da un congelatore in un posto nebbioso.
«Il nostro turno è tra cinque minuti!»

Primo fece una faccia come a dire: eh, allora di tempo ce ne abbiamo! Poi si prese la testa tra le mani e iniziò a riflettere, concentrato.
«Un computer portatile che si carica con una pompa da bicicletta» disse.

«Ma è quello che hai appena fatto scoppià» ringhiò l'ingegner Verne, aggiungendo un brutto insulto.
«Sì, sì, lo so. Cercavo solo uno spunto. Un altro computer ma tutto di gomma, così che se anche cade non si rompe?»
«E in cinque minuti io come lo dovrei costruì, mannaggia a te?»

«Va bene» proseguì il dottor Mazzini. «Una lampada a molla? Un tostapane che fa il pane incorporato? Un paio di sci a motore per non pagare lo skipass?»
«La pochezza delle sue idee non finisce mai di sorprendermi».
Tanto per cambiare, il dottor Rex non si lasciava prendere facilmente dall'entusiasmo. Anche il dottor Manfredi biascicò quella che pareva una critica, ma era talmente ubriaco che nessuno capì una parola.

Primo non diede retta a nessuno dei due, e andò avanti.
«Un biglietto del cinema fosforescente, così trovi il posto al buio. Una canna da pesca che fulmina i pesci». Poi saltò su, e batté le mani.
«Degli strumenti da cucina che si collegano a internet!» esclamò, raggiante. «Così quando fai da mangiare puoi dirlo ai tuoi amici online».

«Va bene!» la professoressa Bresson si sarebbe accontentata di qualsiasi cosa, credo. «Va bene, bene bene bene bene. Ora costruiscilo: hai due minuti!»
L'espressione disgustata di Rex ve la risparmio, Manfredi stava per dare di stomaco e Verne scosse la testa.
«E come la faccio io, 'sta roba?» grugnì. «C'avemo due minuti, hai capito?»
«Che problema c'è? Vieni qui, Trevvù».

Tre Vu Cinque – che per l'occasione della fiera fungeva anche da frigobar – scattò tra i tavoli con un rumoraccio da trattore arrugginito.
«Eccomi, dottor Mazzini».
Primo aprì lo sportello sotto al sedere del robot, e tirò fuorì una busta piena di stoviglie di carta usa e getta, di quelle usate per le feste.

«Questo dovrebbe andar bene» disse, osservando un piatto rosso con decorazioni natalizie.
«Ma siamo quasi a Pasqua!» piagnucolò la professoressa Bresson. Invertire le festività, era un evidente ulteriore motivo di stress.
Primo, invece, era tranquillo. Dopo aver preso il cellulare dalla tasca, lo mise al centro del piatto come se fosse stata una cosa da mangiare, e poggiò tutto su un tavolo.

«Ottimo» commentò, osservando la sua creazione con l'espressione più concentrata che potreste mai riuscire a immaginare... ma forse era solo molto assonnato. «Ora non resta che trovare il sistema per fondere questi due strumenti di uso comune, e avremo ottenuto un oggetto completamente originale».
«Nonché inutile» sottolineò Devon.
«E siamo anche perffffffettamente in ouraio (ha detto orario)» concluse il dottor Manfredi, guardandosi il palmo della mano come per legere un orologio da taschino che in realtà non esisteva.

A quel punto l'ingegner Verne si avventò sul tavolo con la grazia di un orso obeso.
«Dai qua» ruggì. «Ce penso io!»
Detto questo prese il telefono, prese il piatto, e li unì con quattro o cinque giri di nastro adesivo da pacchi marrone. Si fermò un attimo a contemplare il suo lavoro, grugnì una mezza parolaccia e aggiunse altri due strati di nastro, tanto per stare sicuri.

«Ecco» disse alla fine, porgendo il risultato al dottor Mazzini. «Fattelo annà bene, che è il meglio che posso fa'».
Primo prese il tele-piatto, la inter-stoviglia o qualsiasi altro nome preferite dare a quell'affare. Aveva un'aria pensierosa. Poi alzò la testa, e guardò i suoi colleghi con un'espressione che diceva: ho davvero il coraggio di presentare questa roba, oppure no? Alla fine, sorrise.
«Che problema c'è?» Disse, stringendosi nelle spalle. «Diremo che questo è un prototipo».

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Su Primo Mazzini ho scritto anche un intero romanzo, lo trovate cliccando qui.

18/02/11

Racconto - L'archeologo.

Il professore accarezzò la cassa di legno che gli avevano appena consegnato. Accanto all'indirizzo dell'università, attaccata col nastro adesivo, c'era una busta di carta con dentro le generalità dei nuovi reperti e varie scartoffie burocratiche che staccò e mise da parte. Fatto questo prese un piede di porco, e lo usò per sollevare il coperchio.


Una nuvola di polvere riempì il laboratorio. Il professore tossì, e prese a smuovere l'aria per allontanare quella sorta di nebbia. Poi si infilò un paio di guanti, e iniziò a controllare il materiale.


Estrasse per primo un oggetto nero, dalla forma ovale.


Con questo non ci facciamo niente” disse, mettendolo da parte.


Poi tirò fuori una busta di plastica sigillata. Dentro c'era un orologio che il professore guardò con un certo disappunto: il cinturino di metallo era schiacciato e pieno di ruggine. Il vetro del quadrante era spaccato, e le lancette si erano perse.


Al museo abbiamo già di meglio” commentò, posando anche quello.


Tornato con le mani nella cassetta, spostò il materiale da imballaggio che copriva gli altri reperti e il suo sguardo si illuminò.


Ecco!”


Aveva trovato un oggetto rettangolare, di colore scuro. Lo prese dalla cassa, e tenendolo con entrambe le mani lo portò in un altro punto della stanza, dove lo poggiò con delicatezza su un tavolo più grande. Poi prese una piccola spazzola da una rastrelliera di attrezzi appesa alla parete, e la usò per ripulire il reperto dalla terra che lo copriva.


Fatto questo prese un tubo flessibile collegato a un piccolo motore, e con quello aspirò i detriti che riempivano gli angoli e le fessure sui bordi.


Finalmente, portò le mani sulla faccia anteriore dell'oggetto e lo aprì. Le cerniere consumate dal tempo scricchiolarono, rompendosi, mentre la plastica spaccata cadeva dai bordi come piccole schegge scure.


Ok”.


L'interno del congegno era composto da una tastiera con caratteri per la maggior parte mancanti o illeggibili, e uno schermo consumato dall'umidità.


Preso uno scalpello, lo usò per spaccare gli angoli del reperto e scavare letteralmente al suo interno. Prima tolse la tastiera, poi una scheda color verde scuro e completamente polverizzata. Poi dei cavi di collegamento e altri componenti elettronici consumati dal tempo. Si fermò quando trovò un piccolo congegno rettangolare, di metallo.


Piano adesso” disse, prendendolo con delicatezza.


Dopo averlo portato in un angolo della stanza, lo posizionò sotto una campana di metallo collegata a un elaboratore. Schiacciò un tasto alla base della campana, e sullo schermo del calcolatore apparve la scritta ricerca dati in corso.

Passarono pochi secondi, e un campanello annunciò la fine dell'analisi.


Dati recuperati 0.23%, comunicò lo schermo.


Fammi vedere”.


Il professore si accostò al computer, e iniziò a esaminare quello che aveva individuato.


“Inutile” grugnì, cancellando parte dei dati. Poi scosse la testa, ed eliminò qualcos'altro. “Illeggibile”.


Di fronte ad alcune pagine di testo con dei grafici, invece, sembrò più ottimista.


Questo è interessante” disse, spostando il documento in un archivio. “Inquadra perfettamente il periodo storico”.


Aprendo il file successivo diede avvio alla riproduzione di un brano musicale, che però il professore interruppe subito.


Tipica musica popolare dell'epoca” commentò, con scarso interesse.


Poi si irrigidì.


Sullo schermo era apparsa l'immagine di una spiaggia, con delle persone. Evidentemente, aveva rinvenuto una serie di foto. Forse i ricordi di qualcuno vissuto vicino al mare, oppure le immagini di un viaggio.


Il professore osservò le fotografie una alla volta, poi tornò indietro e si fermò su una in particolare: un uomo con un ragazzino in braccio. L'uomo gli fa una pernacchia, e il ragazzino ride.


Diede un comando, e l'immagine uscì da una stampante accanto a lui. Dopo averla presa lasciò il computer, e si spostò verso il fondo del laboratorio. In quel punto, appesi alla parete, si trovavano dei pannelli pieni di fotografie. Ritratti di persone comuni, momenti di affetto e scene di vita quotidiana. Una targa metallica, in alto, diceva: 1900 - 2100.


Il professore appese l'immagine appena stampata insieme alle altre, e si fermò a guardarla di nuovo, osservando il pannello nel suo complesso. Nel far questo annuì leggermente, con un sorriso appena accennato.


E poi ritornò a lavorare.

02/10/00

Ultima revisione.

Libro scritto (quello era semplice, che è una raccolta).

Montato, stampato, corretto, ri-stampato e ri-corretto.

Oggi ho fatto la copertina... e dopo anni da fotografo ho scoperto che è molto più rapido, semplice ed economico prendere delle immagini stock e metterle insieme, senza stare lì a volerle realizzare per forza per conto mio.

La copertina risultante spero che vi piaccia. A me piace molto, anche se sono un po' impazzito per decidere dove mettere il compasso. Il fonendoscopio, invece, stava subito bene lì :)

Riguardo al testo, è venuto fuori un qualcosa di un po' diverso da quello che avevo immaginato: diciamo che arriva molto velocemente agli ultimi anni di medicina, mentre io avrei voluto mantenere una struttura simile al blog con divisione più precisa tra primo, secondo, terzo anno eccetera fino alla laurea.

Il fatto è che tante cose scritte su un blog possono funzionare, mentre a rileggerle da sole invece davvero no. Per cui nella mia idea di scremare tutto quello che non valesse la pena far leggere ho dato più peso ai racconti dei tirocini e molta meno importanza alle chiacchiere sugli esami o su quanto fosse noioso andare a lezione o su quando mi avevano bocciato a Biochimica... che sai a chissene frega.

Ora ri-ri-stampo tutto. Ri-ri-correggo tutto ancora una volta... e poi penso di aver più o meno finito.

Simone

09/09/00

Lavori in corso...

Adoro scrivere libri! Meno male che ho smesso...
Ve l'avevo promesso, ed ecco le prove che ci sto lavorando:

Qualche giorno prima di partire per le vacanze ho selezionato tutti i post che definirei "più o meno interessanti" del blog, li ho impaginati, li ho stampati e li ho portati con me con l'idea di correggerli e dare al tutto una forma - per quanto possibile - omogenea.

Inutile dire che in vacanza il tutto è rimasto in valigia, e mi sono ben guardato dal leggere e - vade retro! - tanto meno scrivere qualsiasi cosa.

Adesso però che sono tornato già da un po' ho finalmente iniziato a lavorarci... e questa foto che pubblico ne è per l'appunto la prova.

In linea di massima mi pare che potrebbero venire fuori, in alternativa:

1) Due libretti piccolini. Uno a tema "tirocini da studente di medicina", e uno a tema "ingegnere che si iscrive a medicina".

2) Un libretto un po' più corposo, dato dall'unione dei due.

Ora bisogna vedere come andrà il lavoro. Da un lato io tendo molto all'idea di scremare, tagliare e distruggere tutto quello che non è abbastanza valido o interessante. Per cui i due libretti potrebbero ridursi a tal punto che unirli diverrebbe l'unica soluzione per tirare fuori qualcosa con una lunghezza minima accettabile.

Da un altro lato credo che un libro, per quanto autoprodotto e messo online su un blog, debba avere una sua coerenza. Per cui un testo che salta di palo in frasca da argomenti opposti (io che parlo del test di ammissione, per fare un esempio, e poi un tirocinio in reparto) non mi piacerebbe molto.

Insomma vedremo.

Quello che rimane da sottolineare, è come non ricordassi assolutamente quanto fosse faticoso, noioso e pesante il lavoro di assemblaggio, revisione ed editing di un testo. Oggi ci sono stato più di mezzo pomeriggio, e alla fine sono... a quanto? Un ventesimo del lavoro? Speriamo che una volta ripresa la mano le cose si velocizzino un po'.

Ma chi dice che la scrittura è una cosa bella che ti rapisce, ti riempie, che ti rende felice e tutte 'ste boiate qua?! Tutta gente che un libro vero non l'ha scritto mai. Ma datemi retta, non credetegli, che non è vero: scrivere un libro è come studiare per gli esami, ma che poi però alla fine nemmeno ti laurei. Lasciate perdere.

Iscrivetevi, piuttosto a Medicina pure voi... o, al limite, a Ingegneria.

Simone